Il caso Calvìin aula, 23 anni

Il caso Calvìin aula, 23 anni IL FACCENDIERE: COSI FINALMENTE POTRÒ DIFENDERMI E FINIRÀ QUESTA BUFFONATA Il caso Calvìin aula, 23 anni A giudizio Carboni, l'ex fidanzata e Pippo Calò ROMA Sono trascorsi 23 anni dalla morte del banchiere Roberto Calvi, a Londra, uno dei più grandi misteri italiani. Ieri la magistratura romana ha rinviato a giudizio quattro dei protagonisti di quella saga: il faccendiere Flavio Carboni, la sua fidanzata dell'epoca Manuela Kleinszig, il boss mafioso Giuseppe Calò, un malavitoso- romano di rango come Emesto Diotallevi. Il gup Orlando Villoni, esaminate le ricostruzioni dei pm Maria Monteleone e Luca Tescaroli, nel decidere di mandare i quattro sotto processo s'è rifatto anche alle conclusioni interlocutorie della magistratura inglese (che non sa risolversi tra omicidio o suicidio): soltanto un dibattimento può fare luce, dunque, perché si confrontano e scontrano elementi a favore dell'accusa e altri contro. Anche le parole dei pentiti di mafia sono contraddittorie e per di più tutte di seconda mano. «Verdetto aperto», dunque. Ma da esaminare in un'aula di tribunale. Omicidio volontario premeditato, è l'accusa. Secondo i magistrati, i quattro «in concorso con altri non ancora tuttiidentificati», organizzarono le cose in modo da convincere il banchiere a scappare a Londra, dove lo portarono in braccio ai sicari. Non prima di averlo alleggerito di diversi miliardi: erano i soldi della mafia e della camorra che tornavano a casa. Dietro la morte del banchiere, infatti, secondo l'accusa c'erano gli interessi di Cosa nostra e della camorra napoletana che avrebbero affidato al Banco Ambrosiano i proventi della droga da riciclare e che vedevano in pericolo i loro investimenti. Ma non solo. I magistrati dietro l'omicidio Calvi ipotizzano una convergenza di interessi occulti. Scopo: «Impedirgli di esercitare il potere ricattatorio nei confronti dei referenti politico-istituzionali, della massoneria, della loggia P2 e dello lor, con i quali aveva gestito investimenti e finanziamenti di cospicue somme di denaro». Soldi che venivano da Cosa nostra ma anche da enti pubbhei. Fu Giuseppe Calò, in base alla ricostruzione dei pm, il mandante dell'omicidio. Gli altri tre collaborarono alla fase esecutiva del piano che prevedeva anzitutto l'allontanamento del banchiere dall'Italia. Il boss, capo mandamento di Porta Nuova a Palermo, nel frattempo si era trasferito a Roma dov'era incaricato di investire i grandi guadagni dell'organizzazione. E non soltanto quelli della mafia siciliana visto che Calò «impartiva disposizioni ad altri associati per delinquere, tra i quali Vincenzo Casillo, deceduto il 29 gennaio 1983, esponente di rilievo dell'associazione criminale denominata Nuova camorra organizzata diretta da Raffaele Cutolo». Dura la reazione di Flavio Carboni: «Continua la buffonata. Non mi riferisco però alla decisione del magistrato di rinviarmi a giudizio, ma a tutta la vicenda. Finalmente per decisione di un gup equilibrato in giudizio potrò spiegare la mia posizione. Il giudizio servirà a fare chiarezza. Per quanto mi riguarda sono convinto che Calvi si sia suicidato». Carboni insiste, dunque, nell'ipotesi del suicidio. Non fu sua, dice, la decisione di scappare a Londra ma di un Calvi depresso e terrorizzato: «Non volle entrare in Svizzera perché esposto a troppi rischi». Ma sulle tappe della fuga del banchiere dall'Italia in aereo privato, con tappa a Klagenfurt, a casa di Manuela Kleinszig, poi a Innsbruck, infine a Londra, non c'è discussione. Il mistero viene dopo. «Ci difenderemo a 360 gradi», commentano i difensori di Carboni, Renato Borzone e Anselmo De Cataldo. Diotallevi, già inquisito per la banda romana della Magliana, sarà difeso dall'avvocato Carlo Taormina. [fra. gii.] Il ponte dei Frati Neri, a Londra, sotto il quale fu trovato morto Roberto Calvi