Era un masnadiere capostipite del Gattopardo

Era un masnadiere capostipite del Gattopardo L'INDAGINE Era un masnadiere capostipite del Gattopardo Gianni Bonina T OMASI di Lampedusa non andò mai a Simancas, dove dal Cinquecento domina il più grande archivio militare dell'epopea spagnola. Se l'avesse fatto forse avrebbe trovate quanto un altro palermitano, Giovanni Marrone, ha pubblicato nel '95 in appendice al suo Città campagna e criminalità nella Sicilia modema (Palumbe): gli atti del processo che nel 1583 fu celebrato centro «tale» Mario de Temasi, un capitano d'arme di Licata di cui Marrone fu pronto a rilevare ^(esemplare camera», perché comune ai masnadieri che si resero famigerati per nefandezza ed efferatezza e che prepararono la campagna siciliana alle bande mafiose dei campieri. Un processo concluso con una blanda condanna all'inabilitazione e perciò servito a offrire alle future generazioni criminali il modello base dei giudizi di mafia in Sicilia. Mario de Temasi era il peggiore dei suoi pari e Marrone vide bene elevandolo a campione della risma con una fedina da brivido. Marrone però non si avvide che il «tale» Mario de Temasi altri non era che il capostipite dei Tomasi di Lampedusa, lo stesso Mario Tomasi che nell'S? era comparso in cima all'albero genealogico pubblicato da Andrea Vitello nella sua ponderosa biografia omonima dello scrittore uscita da Sellerie. Epperò, in un gioco di continue distrazioni, nemmeno l'acribitice Vitello, pure lodato da Gioacchino Lenza Temasi per il frutte della sua ricerca (che parte già nel '63 da Flaccevio con I Gattopardi di Donnafugata: dove però si tace ancora circa la vera natura del capostipite), capi con chi avesse a che fare e, definendo Mario Tomasi appena «un oscuro armigero», si limitò a segnalare che aveva sposato, proprio nell'anno del processo, una Francesca Caro, baronessa di Montechiaro e signora di Lampedusa. E' infatti con l'attribuzione di «primo barone di Montechiaro» che il capostipite scrive una memoria difensiva di almeno due volumi indirizzata al re di Spagna e rivolta contro il «visitador» regio che istruisce il suo processo, perché ne sia impedita la «prosecuzione». Ne avrà, come si ricava dal testamento del fighe Giovanni, la condanna anche all'esilio. Il frontespizio del lungo ricorso costituisce oggi la seconda illustrazione del libro di Lenza Tomasi Biografia per immagini di Tomasi (Enzo Sellerie, 1998) e proviene dai documenti di casa Temasi andati in gran parte distrutti nel bombardamento del '43. Giuseppe Tomasi non poteva dunque non conoscerne 'esistenza né ignorare che artefice della «razza di santi» lampedusiana fosse stato un delinquente della peggiore cotta. Se dunque non andò mai a Simancas fu perché non aveva bisogne di sapere oppure non voleva sapere di più, ipotesi che è più verosimile. Le indagini che Andrea Vitello ha ripreso - preste oggetto di un terzo libro - hanno altresì permesse di accertare che Lampedusa ne parlava al cugino Lucio Piccolo. Ma cesa sapeva Lampedusa circa il suo capostipite? Certamente era al corrente del precesse e dunque (se ha avuto in mano la mele dei documenti andati perduti) di tutte le accuse, compresi gli eccessi del cacciatore di teste. Se le cose stanno così, Il Gattopardo ci appare setto una luce nuova mentre sibillina risuona la celebre frase che suggella la parabola dell'aristocrazia siciliana nel fendo di un' esperienza personale, quella del Principe, che sembra espiatoria: «Nei fummo i gattopardi, i leoni, quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene». Senonché Don Fabrizio pensa preprie il contrario, se vede negh «smisurati ritratti equestri dei Salina trapassati» e nella «doppia fila di antenati corazzati e infiocchettati» i tratti torvi dello sciacallo e della iena che era stato il loro primo ascendente. Vitelle ha voluto scorgere l'ombra di Mario Tomasi nel commento di Lampedusa al Caesar di Gundelf sul mensile Le Opere e i Giorni, deve l'autore del Gattopardo teorizza il diritto ad una seconda biografia. «senza confini di tempo e di spazio, che narri l'aggirarsi dell' ombra» e le «conseguenze delle sue apparizioni». Il riferimento alla macchia originaria può sembrare esplicito se di Lampedusa si accoglie l'idea di un uomo che del travestimento e della finzione fa une stile di vita, tante da nascondere a se stesso e agh altri di non avere il tumore che lo ucciderà. La «naturale tendenza» del Principe di Salina «a rimuovere ogni minaccia alla sua calma» è perciò la stessa di Lampedusa. Più che il bisnonno Giulio Fabrizio, il Principe ci appare allora lo stesso Lampedusa, trasposto nella coscienza dell'ultimo discendente cui spetta con la propria morte, tanto «corteggiata» e ricercata, di interpretare un destino generazionale ubbidendo al credo in una ananké. «Primo ed ultimo di un casato» tenuto in spregio, nutrendo dichiarato «disprezzo per i suoi parenti e amici che gli sembrava andassero alla deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano». Quando nella lettera al suo amico Enrico Merlo scrive che è Bendicò la chiave del romanzo è forse questo che Lampedusa intende: il cane, i cui resti impa- gliati resistono quasi trent'anni per poi disfarsi nell'aria, salvo ricomporsi nella postrema sagoma di un gattopardo, è «il personaggio» latera e e scorciato che assiste a tutte le vicende incombendo come uno stemma o uno stigma, il segno che l'elemento di maggiore consistenza e durata non appartiene alla natura umana, benché sia una presenza famigliare e perciò cara. Nella stessa lettera del '57 a Merlo Lampedusa rivela anche: «Angelica non se chi sia, ma ricorda che Sedàra, come nome, rassomiglia molte a Favara». E Favara è la roccaforte nella quale il capitano d'arme Mario de Tomasi guida per 22 giorni un saccheggio senza risparmio. Sicché sui modi volgari di Sedàra si possono sovrapporre quelli del prime Tomasi, barone per sole effetto del matrimonio e vihano senza emuli: nessune dei Lampedusa porterà infatti - e non a case - il sue nome. Del resto quando, inopinatamente, Lampedusa scorge negli occhi di Concetta «un bagliore ferrigno» e le riconosce «il sangue violento dei Sahna» non può che pensate a Marie Temasi, il cui spirito nefasto si è trasfuse nell'unica figura di casa Sahna che è vista con sfavore (ma anche il figlio Francesco Paolo è gradito appena) e che finirà per addirsi ai mercimonio di reliquie compiendo dunque, se non reiterando, un reato che suona come apostasia della vocazione alla santità dei Lampedusa. La «fine di tutto», se tale dev'essere, non può che colpire tutti i componenti di una schiatta nata con un male inestirpabile. E di un male incurabile Lampedusa infatti muore, compiuta la sua epera di resipiscenza e di penitenza, rifiutata ogni possibilità di redenzione, una volta messa la parola fine ai suoi atti devozionali. Giuseppe Tomasi non poteva ignorare che artefice della «razza di santi» lampedusiana fosse stato un delinquente della peggiore cotta Giuseppe Tomasi di Lampedusa