La ragazza che non spedì mai la lettera

La ragazza che non spedì mai la lettera La ragazza che non spedì mai la lettera Giovanni Teslo DEBORAH Gambetta è certo una ragazza «che vale la pena di conoscere», giusto per citare l'invito dell'antologia einaudiana in cui è stata inclusa l'anno scorso. Una ragazza di trentacinque anni, torinese di nascita, romagnola di residenza (vive a Massa Lombarda, nel Ravennate), autrice di due precedenti libri che non sono passati inosservati. Una ragazza che sa affrontare il tema della sofferenza e del dolore con sobrietà di mezzi e durezza di scrittura. Il suo romanzo appena pubblicato da Einaudi, Il silenzio che viene alla fine, avrebbe anche potuto intitolarsi «Il linguaggio che viene dalla fine»: tanto è bilanciato il rapporto tra silenzio e parola, tanto la parola sembra scaturire dalla soglia estrema di una violenta oscurità (non a caso il paesaggio è imbevuto di luce e di silenzio, non a caso la parola s'incide nel bianco come in versi e respiri, in modi così vicini a quelli della poesia). Non dunque un narrare disteso e polifonico, ma la ricerca di un'indicibilità profonda, sempre vicina alla catastrofe. Non il beneficio terapeutico di una sofferenza che trova compenso, ma la denuncia di un disagio che non sembra cessare, la confessione di una ferita che continua a lacerare le sue labbra. A volte poche parole, a volte un raccontare più disteso, ma rotto sempre da pause che sembrano mimare il silenzio di strofe diseguali. La storia sembra essere fatta quasi di nulla ed è invece un concentrato di peripezie interiori da cui scaturisce un romanzo duro e ossessivo. C'è una ragazza che dice io. C'è una lettera (mai spedita) che la ragazza manda a qualcuno che se n'è andato, qualcuno che vive imbozzolato dentro un'infelicità non meno profonda, dentro un «dolore oscuro» non dissimile da quello della ragazza che non è riuscita a trattenerlo: per reticenza, per stanchezza, per disperazione. C'è la sofferenza muta della ragazza che vive dentro un vuoto di paternità (un padre carnale che l'ha disconosciuta, un padre acquistato cui è costretta a rubare il suo ruolo di figlia). Ci sono le storie drammatiche di un fratellastro, il figlio del secondo padre, che muore in un incidente. Ci sono le violenze dei padri (di tutt'e due i padri). C'è una madre amorosa cui è legato un passato di traumi e complicità. C'è una casa di campagna, lontana da tutto. C'è una coppia di contadini di cui la ragazza scruta di lontano la consistenza e l'impenetrabilità. C'è un'altra coppia cui qualcuno vorrebbe sottrarre i figli (una coppia che sprofonda all' improvviso nella voragine mu¬ ta e distante della tragedia). Ci sono le emozioni della perdita e della sconfitta, dell'inadeguatezza e della sproporzione, della perdita e della separazione, dell'esclusione, dell'assenza, della distanza incolmabile, della differenza inguaribile', del «niente» in cui tutto finisce («L'assenza muove la mia vita. Sono un corpo dimezzato, un' anima senza contorni. Non ci sono pareti da toccare, dentro me»). Ma c'è soprattutto la grazia dolorosa (e misteriosa) di una scrittura senza aloni, che pare sempre sul punto di forare la superficie delle cose per coglierne il segreto inespugnabile. C'è lo sviluppo lento di tutto questo, la consapevolezza cbe «le parole che dicono la vita sono terribili come la vita stessa». Sotto la crosta delle parole che mordono accanite la lorp preda, si dipana a poco a poco il senso di un viaggio interiore che mette in gioco il paradosso del silenzio da convertire in linguaggio. Nella fissità dello sguardo e nel ritmo lento della storia, l'esperienza del silenzio «che viene alla fine» incontra il suo linguaggio - circoscritto ed essenziale - che dalla fine viene. «IL SILENZIO CHE VIENE ALLA FINE» DI DEBORAH GAMBETTA: TANTE PERIPEZIE INTERIORI, UN'INDICIBILITÀ PROFONDA, SEMPRE VICINA ALLA CATASTROFE Deborah Gambetta Il silenzio che viene alla fine Einaudi, pp. 226. 213.80 ROMANZO

Persone citate: Deborah Gambetta, Einaudi

Luoghi citati: Massa Lombarda