Le rivoluzioni dì velluto che spaventano Mosca

Le rivoluzioni dì velluto che spaventano Mosca E' LA SECONDA FASE DI USCITA DAL COMUNISMO: LE VECCHIE REPUBBLICHE VOGLIONO ADERIRE ALLA NATO E ALL'UNIONE EUROPEA Le rivoluzioni dì velluto che spaventano Mosca Dopo Georgia e Ucraina il «contagio democratico» si estende nell'ex Urss analisi Marie Jégo, ROSE in Georgia nel 2003, arance in Ucraina nel 2004, le «rivoluzioni di velluto» che appaiono come una promessa di un possibile ancoraggio all'Occidente di questi Stati postsovietici, hanno generato un'ondata di imitatori in tutta l'ex Urss. Dal Kyrgyzstan ai confini della Cina alla Moldavia sulla soglia dell'Unione Europea allargata, dovunque si devono tenere prossimamente elezioni legislative il problema del contagio democratico spaventa le élites pohtiche, intriga gli esperti e ossessiona i media locali. La stampa russa cerca di indovinare a chi tocca la prossima volta. I colori delle prossime rivoluzioni sono già annunciati: bordeaux nella Moldavia vinicola, albicocca nel meridione dell'Armenia, melanzana per l'Azerbajdzhan e ovviamente ambra per l'enclave di Kaliningrad in preda a un vento di fronda che soffia tra i portuali del Baltico. A Chisinau, la capitale moldava, il populista e capofila della destra estrema Jurij Rochka ha fin d'ora affittato per tutto il periodo successivo alle legislative del 6 marzo prossimo la piazza centrale, per orchestrarvi una replica della «rivoluzione arancione» in previsione di una falsificazione del voto. I modelli georgiano e ucraino il rovesciamento delle vecchie élite a favore di una nuova generazione di uomini politici educati in Occidente e propensi al cambiamento - è una tentazione. Segna la seconda fase dell'uscita di questi Paesi dal comunismo. È più piacevole che essere costretti a constatare che - 14 anni dopo l'ondata delle indipendenze - la maggioranza delle repubbliche uscite dall'Urss non ha fatto progressi verso la democrazia. Appena sbarazzatisi del totalitarismo sovietico la maggior parte di questi nuovi Stati sono piombati nel- l'autocrazia (Turkmenistan), nella tirannia (Bielorussia, Uzbekistan, Azerbajdzhan) o nel governo dei clan (Kazakhastan, Tagikistan, Kyrgyzstan). Le leve del potere sono rimaste in mano alle vecchie élite corrotte e lontane dalla popolazione, e la vecchia battuta di Stalin «Non è importante colui che vota, ma colui che conteggia i voti» è più attuale che mai. Ma i trucchi con le urne non pagano più. In Ucraina come in Goergia sono state proprie le falsificazioni elettorali organizzate dai regimi al governo a fungere da detonatori per la loro caduta. Considerato passivo, indifferente, impreparato alla democrazia, l'elettorato infine lìbero dalla sua gabbia di «Homo sovieticus», è insorto contro l'uso spregiudicato del suo voto. E anche a Bishkek (Kyigyzstan) e adAlmaty (KazakhstanTin queste ultime settimane si sono avute manifestazioni che hanno fatto fremere l'opposizione e innervosire i dirigenti. «Non ci sarà nessuna rivoluzio¬ ne né rosa, né arancione», ha garantito di recente il tiranno bielorusso Alexandr Lukascenko, il cui successo più importante è stato finora quello di aver fatto mettere il suo Paese al bando dalla comunità intemazionale. Il suo collega kiighizo, il presidente Askar Akaev che dovrà affrontare nel 2005 due sfide elettorali (le legislative il 27 febbraio e le presidenziali a ottobre), ha protestato contro i «tentativi di alcuni provocatori di diffondere le rivoluzioni di velluto» nel suo Paese. E il suo vicino, l'autoritario numero uno uzbeko Islam Karimov, ha invocato l'aiuto della comunista intemazionale per farla finita con «l'utilizzazione inacettabile della democrazia a fini di colpo di Stato». Le inquietudini di questi leader sono fondate. A Kiev i giovani quadri del movimento «Fora!» (È orai), l'organizzazione che ha fatto da punta di lancia per la «rivoluzione arancione», non fa mistero delle proprie intenzioni: esportare le sue tecniche in tutta l'ex Urss. Hanno già avuto contatti con le opposizioni kazakhe e kirghize. Ovviamente, i fondi stanziati da fondazioni e Ong americane (l'Open Society di George Soros, Freedom House, l'Istituto democratico nazionale e l'Istituto intemazionale repubbhcano), e dal dipartimento di Stato (65 milioni di dollari per l'Ucraina negli ultimi due anni) hanno contribuito a rendere le cose più facili. Le malelingue non mancheranno di ricordare che nel novembre 2003 in Georgia le forze dell'ordine inviate da Eduard Shevardnadze sul teatro delle manifestazioni avevano già ricevuto dalle Ong degli «incoraggiamenti» che senza dubbio li aiutarono al momento giusto di provare soUdarietà con la folla. Ma bastano questi piccoli trucchi a spiegare il successo delle «rivoluzioni di velluto»? Avrebbero potuto esse riuscire senza la determinazione dei manifestanti, della folla, senza il lavoro delle Ong? «Se i cittadini di un Paese non vogliono il cambiamen¬ to, non riuscirei a importare nemmeno la più piccola delle rivoluzioni», osserva Aleksandr Marie, serbo di «Otpor». Vista dalla fortezza del Cremlino sulle rive della Moscova, la cosa prende tutta un'altra piega. Per i russi - per l'opinione pubblica come per gli uomini politici - le rivoluzioni vengono percepite come un effetto delle manovre nascoste di quell'Occidente in «elmetto coloniale» denunciato da Vladimir Putin durante la crisi ucraina. «Se noi perdiamo l'Ucraina, gli occidentali ci tratteranno come una repubblica delle banane», ha profetizzato recentemente sulla stampa russa Viaceslav Nikonov, uno dei consulenti per l'immagine del Cremlino inviato come rinf orao a Kiev per la campagna elettorale. Una cosa è certa: la riconquista da parte della Russia del suo «vicino estero», definita una delle priorità del secondo mandato di Vladimir Putin, non ha avuto luogo. Al contrario, l'Ucraina come la Georgia non vogliono altro che integrarsi nell'Unione Europea e nella Nato sull'esempio delle tre repubbliche Baltiche. La verità è che il progetto che Mosca vorrebbe imporre ai suoi ex vassalli - una dipendenza energetica maggiore, relazioni economiche decise dall'alto e la permanenza delle sue forze militari (la base navali a Sebastopoli, in Ucraina, le basi militari in Georgia che Mosca si rifiuta di ritirare nonostante gli impegni presi in merito con l'Osce, basi in Tagikistan, in Kyrghizstan, in Armenia, in Moldavia)- non incanta nessuno. E il vento della rivoluzione ha poche probabilità di soffiare anche in Russia dove, come ha recentemente detto l'analista Nikolaj Petrov, «sta rinascendo la vecchia trinità del potere sovietico: il Comitato centrale del partito, il govemo e un parlamento fantoccio». Copyright Le Monde YuliaTimòshenko a Kiev a novembre nei giorni della rivoluzione arancione