Sangue e galera il destino segnato dell'erede di Riina

Sangue e galera il destino segnato dell'erede di Riina DOPO LA CONDANNA ALL'ERGASTOLO DEI PRIMOGENITO DEL PADiR A, GIOVANNI Sangue e galera il destino segnato dell'erede di Riina Un pesante fardello per «'u picciriddu». L'ha allevato al crimine lo zio Al 9 anni un omicidio «a mani nude». Il fisico corpulento non l'ha aiutato I punti di riferimento erano i Brusca, i Vitale, Calvaruso e altri «bravi ragazzi» personaggio Francesco La Licata PALERMO HA soltanto 29 anni, ma sul suo futuro è stata già abbassata la saracinesca. Sulla scheda personale di «definitivo», nel carcere di Temi, è stata aggiunta la frase che ogni detenuto non vorrebbe mai leggere: «Fine pena: mai». E così, Giovanni, il fìgbo primogenito di Totò Riina, 'u picciriddu che tramanda il nome del nonno, si avvia a seguire le ormo paterne, ma senza neppure avere avuto il tempo e la possibilità di vivere una vera vita, di «gustare» il sapore del potere che, invece, don Totò ha ben conosciuto. Giovanissimo e già perduto per essere stato indotto, a scopo mafioso-educativo, ad «uccidere a mani nude». Sì, esattamente: strangolando con la sola forza delle dita. Aveva solo 19 anni, Giovanni. Ma la sua vita era segnata, come era stata quella del padre, del nonno, quella dello zio, il terribile Bagarella cui era affidata la «crescita» dell'erede. Destino infame, nascere in quel mondo, figlio di un «re» senza identità, fantasma che per trent'anni ha inferto ferite alla sua terra e, infine, persino ai suoi affetti più cari. Eredità pesante, il cognome che Giovan¬ ni ha ricevuto senza poter praticamente scegliere di discostarsene. Ergastolano a 29 anni, «iniziato» al rito tribale del sangue da un tabù indistruttibile, tenuto in vita da zii, parenti, amici, da un ambiente sempre uguale a se stesso, iiredimibile e immutabile come la trasmissione dei geni ereditari. Da una madre ingombrante, almeno quanto il padre. Una madre che va rinchiudendosi sempre più in una specie di solitudine coatta, autogenerata dalla stessa cadenza, dalle scelte imposte alla propria vita. Soffia un vento freddo laggiù, sotto la Rocca di Corleone, sotto il rudere di quello che fu anche carcere, esposto in alto quasi a monito per quanti hanno fatto della galera una filosofia di vita, fino alla strafottenza massima di considerare la detenzione «una villeggiatura». L'inverno è più rigido, a Corleone. E Ninetta Bagarella, moghe fedele e madre, si potrebbe dire, «sfortunata», se ne sta rintanata nella casa di via Scorsone, al centro del paese vecchio. Abitava già lì - tra quelle case che sulla porta espongono l'immagine del Cuore di Gesù e rimangono perennemente protette dalle persiane socchiuse, «a spaccazzedda» -, abitava già lì quando, appena ragazza, si sciogheva innamorata alla vista del suo Totò. Adesso è sempre più sola, circondata da altre donne. Il suo uomo vive in cella da dodici anni, spiato da un perenne occhio di telecamera. Avrebbe voluto un destino diverso per i figli. E invece niente: Giovanni all'ergastolo e l'altro maschio, Giuseppe Salvatore detto «Salvo», ospite del carcere di Pagliarelli, periferia di Palermo, condannato a 14 anni per mafia. E' vuota la casa di via Scorsone, senza maschi. E Concetta si è sposata col suo Tony, andando a vivere in un appartamento sulla circonvallazione del paese, non molto distante da quella che fu la spocchiosa casa dei Riina, coi marmi, con l'ascensore privato, col «passamano» in legno pregiato e le cucine che sembravano da ristorante: tutto confiscato e trasformato in scuola pubblica. Con Ninetta rimane Lucia, la figlia piccola che studia. Che tristezza, la sorte di Giovanni. Certo anche «Salvuccio» ha di che patire ad appena 27 anni, ma almeno può sperare in una libertà futura. L'altro no, è schiacciato da una sentenza della Cassazione. Non è stata allegra, la giovinezza di Giovanni Riina. A cominciare dal fatto di non avere avuto una vera identità. Partorito (come anche gli altri tre) in clandestinità, anche se in una delle migliori cliniche di Palermo, col cognome da nubile della madre, ha fatto il giro delle sette chiese sempre sfuggendo ad una vita nonnaie. Per lungo tempo i figli del boss non sono andati a scuola. Ci pensava la madre ad istruirli e ad educarli. Non era forse maestra? Non aveva frequentato il magistrale, quando andare a scuola, per una ragazza di paese, era un'impresa? Istruirli, va bene. Ma come fare a spiegare ai ragazzi l'isolamento in cui erano costretti a vivere? Che si facevano chiamare Bellomo solo perché non potevano usare né il cognome del padre né quello della madre? Come giustificare il fatto che non andavano a scuola? Non è stato facile il ruolo di donna Ninetta, lacerata tra i doveri di madre mai portati ad un vero compimento e la difesa, quasi fisica, del marito. E' stata la sorella piccola. Lucia, a raccontare alla giomahsta Sandra Amurri lo smarrimento di una vita da fantasma. Ed anche Concetta ricordava: «Una volta vedemmo la foto di mio padre in tv. Lui ci stava seduto accanto e gli chiedemmo: "Perché dicono che ti chiami Riina?". Lui ci rispose che si erano sbagliati». Ma i dubbi restavano ed era difficile liberarsene, tanto che Lucia - anche dopo l'arresto del padre e il ritorno alla vita normale - continuò a scrivere ossessivamente sui muri il proprio nome e cognome. Quello vero. E Giovanni? Era il maschio grande e su di lui pesava l'obbligo dell'eredità. Il fisico non l'aiutava, impacciato e di eccessiva mole. La salute non perfetta: il ragazzo soffriva di problemi alle gambe, tanto che doveva sottoporsi a lunghe sedute di riabilita¬ zione motoria. Il suo orizzonte cominciava e finiva nel gruppo familiare «stretto»: padre, madre, fratelli e zii. Già, lo zio. Lo zio Leoluca Bagarella, il fratello della madre, ma anche il braccio destro del padre, assassino freddo e fedele luogotenente del padrino di Cosa nostra. Sapeva, Giovanni? E'probabile: il primogenito del boss se non sa intuisce. E poi, quello era il suo mondo. Di che gli parlava lo zio «Leoluchino»? Chi vedeva, Giovanni, quando andava acl incontrarlo? Chi erano gli amici dello zio? Erano i Brusca, i Vitale, Tony Calvaruso e tanti altri «bravi ragazzi». Era un secondo padre, per il ragazzo, Leoluca Bagarella. E' lecito pensare che lo tenesse d'occhio per verificarne, come si dice, l'attitudine alla militanza in Cosa nostra. Per questo era ammesso alle scampagnate tra uomini d'onore, alle «mangiate», ai discorsi grevi di adulti maliziosi, alle gite all'Euromare, residence balneare degli «amici». E Giovanni Mangiava pane e e mafia. Una volta, mentre stava in giro con lo zio, il giovanotto fu preso dal mal di pancia. La colpa del malessere fu data ad «un'arancina comprata a Corleone». 'Upicciriddu aveva acidità di stomaco a causa di «un cornuto» che gli aveva venduto un'arancina andata a male. Questa la sentenza di Bagarella, il quale - ovviamente - pronunciò anche la sanzione da infliggere al povero commerciante: «Andiamo a sparagli». Per fortuna Giovarmi confessò che di arancine ne aveva mangiate più d'una e forse il mal di pancia era giustificato. Ecco i discorsi che Giovanni ascoltava. E così, quando si convinse che a Corleone - il padre era stato da poco arrestato - qualcuno voleva fargli del male, si confidò con lo zio «Luchino». Bagarella indagò e decise che a Corleone c'erano amici del pentito Contomo pronti alla controffensiva mafiosa. Fu catturato il giovane fìgbo di un capomafia di Canicattì, che venne torturato e poi strangolato. L'«onore» di stringergli il collo fu riservato a lui, a Giovanni che aveva poco meno di 19 anni. Poi i «soldati» di Cosa nostra finirono il «lavoro», uccidendo una coppia di sposi a Corleone, ma sempre per dare soddisfazione al piccolo che così sosteneva il battesimo del fuoco. Inutilmente, Concetta e la madre hanno cercato di proteggere Giovanni, nello stesso modo con cui avevano tentato di descrivere «don Totò» come un •integerrimo padre di famiglia. Dicevano che «Giovanni è buono», anche contro i fatti certi che lo avevano visto protagonista di episodi allarmanti come le risse nelle discoteche, il gusto della velocità, le amicizie pericolose che lo avevano già inguaiato ai tempi della denuncia per la distruzione della lapi- de dedicata a Giovanni Falcone. Ma la mafiosità, in quelle famiglie, è sempre stata più forte di qualunque richiamo di civiltà. Il disprezzo per i pentiti, l'omertà come valore, la difesa, contro ogni evidenza, di qualunque verità patema, sono stati gli argomenti trasmessi dalla madre. Ore di intercettazioni ambieiitali e telefoniche, in casa Riina e persino durante .i colloqui in carcere coi figli, hanno congegnato agM investigatori unasdonna dura é decisa che, ' pero) ha fallito la missione di salvare i ragazzi. E' suo il sarcasmo sui pentiti: «Sapete la nuova moda? Quella della dissociazione», rilanciato da Giovanni e «Salvo»: «Ma se uno non è associato, da che cosa si deve dissociare?». «Mio padre non è associato neppure al Milan, sennò avremmo vinto lo scudetto». .«Noi purtroppo siamo di queUi che mangiano pane e galera». E non può meravigbare l'atteggiamento del più piccolo, «Salvo», che parlando con un amico davanti al guard-rail dove avvenne la strage di Capaci, commenta il successivo arresto del padre: «Abbiamo avuto questa botta... Se non fosse stato così non so come sarebbe andata a finire, se allo Stato non avremmo fatto abbassare le coma». Chissà se donna Ninetta ripensa a quei discorsi, ora che la mannaia dell'ergastolo, dopo aver colpito il marito, si è abbattuta anche sul suo Giovanni. La madre Ninetta Bagarella ora è rimasta sola nella casa di Corleone attorniata da tante donne Il fratello Salvo deve scontare quattordici anni per mafia, ma può sperare nel futuro La moglie di Tote Riina, Ninetta Bagarella Tote Riina in un'aula giudiziaria durante un processo a Palermo Leoluca Bagarella dietro le sbarre dell'aula bunker dell'ex carcere fiorentino di Santa Verdiana Maria Concetta Riina ad un processo a Palermo Giovanni Riina