IL PROIETTILE D'ARGENTO di Lucia Annunziata

IL PROIETTILE D'ARGENTO IL PROIETTILE D'ARGENTO Lucia Annunziata BAGHDAD LA morte del maresciallo Simone Cola appare tanto più drammatica se si pensa che è avvenuta nello stesso giorno in cui il premier iracheno ha ripetuto tutti i suoi dubbi sullo stato della sicurezza nel Paese. «La realizzazione del piano è stata completata - ha detto Allawi ma non è sufficiente a far fronte ad attacchi violenti». E non è nemmeno la prima volta che il candidato favorito dà voce a tutta la sua incertezza sulle condizioni in cui si voterà la prossima settimana. La morte del soldato italiano ripropone così la ragionevolezza di molti dubbi: perché non sono state rimandate queste elezioni di poche settimane, di pochi mesi, del tempo necessario a ristabilire ordine nel Paese, come pure partiti iracheni avevano chiesto e alcuni esperti americani suggerito? In fondo, rimandarle non sarebbe stato una decisione impossibile, né definitiva come il ritiro delle truppe dall'Iraq. Il fatto è che il mantenimento di questo appuntamento è parte profonda della cultura strategico-politica americapa: per il governo Usa le elezioni in tempo di guerra costituiscono, nella sua storia, il «Silver bullet», il proiettile d'argento con cui si uccide il Mostro; il punto di svolta in cui una strategia militare passa a una nuova fase. Si tennero così, in condizioni anche peggiori, le prime di queste elezioni, quelle che divennero modello per le altre: il voto in Vietnam del 3 settembre del 1967, in cui venne eletto, con l'SO per cento dei votanti, il candidato favorito dagli Usa, Nguyen van Thieu. Si votò in queste condizioni in El Salvador nel marzo del 1982, sotto i colpi della guerriglia, per eleggere un altro favorito dagli americani, Duarte. E' poi stato il turno dell'Afghanistan, che votò appena uscito dalla guerra, ma ancora pieno di tensioni. E proprio a proposito del voto in Afghanistan, troviamo di recente un riferimento chiaro al passato da parte del vicepresidente Cheney, che nell'ottobre del 2004 dichiarava; «Venti anni fa avevamo un'identica situazione in El Salvador e tenemmo libere elezioni» (Cheney era allora in quel Paese come osservatore del Congresso). Il famoso generale Abizaid, nelle stesse settimane gli faceva eco; «Se guardiamo alle precedenti esperienze, quale il Salvador, sappiamo che la gente che vuole votare voterà». Siamo insomma davanti a ima costruzione teorica, non una semplice ostinazione. Le elezioni come «Silver bullet», appunto, il gesto con cui si raddrizza una situazione nata male. L'impatto evocativo per il mondo occidentale è forte: esalta infatti tutti i valori su cui l'America giustifica la sua influenza nel mondo: la democrazia e la difesa degli oppressi. Non ultimo, ci sono pbche immagini mediaticamente più efficaci e più emozionanti di una fila di uomini e donne che sfidano disarmati gli armati, per deporre una scheda. Alla fine, dunque, è solo il passaggio elettorale, che può portare a una nuova fase; nessun ritiro delle truppe sarà insomma mai contemplato senza la legittimazione formale di un nuovo governo. Ormai, a una settimana dal voto, è troppo tardi forse per riproporre le domande. Bisogna tuttavia vedere se seguirà davvero ima fase più controllabile e meno lacerante per gli Usa. Il risultato in Afghanistan ancora non si conosce. In Salvador il metodo ha funzionato. In Vietnam, tuttavia, cinque mesi dopo il voto, la notte del 31 gennaio del 1968 il Vietnam del Nord lanciò l'offensiva del Tet. Che segnò l'inizio della fine per la presenza americana in quella parte del mondo.

Persone citate: Abizaid, Allawi, Cheney, Duarte, Nguyen Van Thieu, Simone Cola