Mario Merz la materia e l'energia

Mario Merz la materia e l'energia SI APRE OGGI ALLA GAM DI TORINO E AL CASTELLO DI RIVOLI LA GRANDE RETROSPETTIVA SUL MAESTRO DELL'ARTE POVERA Mario Merz la materia e l'energia NicoOrengo TORINO. SE la ricorda, quella serata Tucci Russo, allora giovane di bottega nella Galleria Sperone, alla Spada Reale quando Mario Merz animò la sua serie di Fibonacci e fece entrare, da 1 a 55, secondo la sequenza 1 + 1=2. 2+1=3, gli amici- avventori nel ristorante. Già, il futuro leone dell'«arte povera» stava in quella zona che Francesco Arcangeli avrebbe definito del «comportamento» e che in vista della Biennale veneziana del 72, da lui curata, l'avrebbe indotto a chiedersi perché mai Merz avesse voluto per parteciparvi un «vecchio barcone». Eppure Mario Merz, nato nel '29, svizzero con padre ingegnere, esperto in motori ma anche inventore, trasferitosi da Milano a Torino, era destinato al Politecnico, non alla pittura e tanto meno all'arte comportamentale, povera, concettuale che fosse. Così, prima fugge a Medicina e poi, gran lettore e appassionato di pittura non resiste ad adoperare quegli strumenti che usano i suoi amici «torinesi», Spazzapan e Moreni, con segni materici, astratti. «Gran Testa» lo soprannomina Carol Rama per quella sua acuta intelligenza, la curiosità inappagata, la vitalità scatenata che semina intomo a sé. Capace di parlare e bere una notte intera, dormire su un cofano d'automobile un'ora e poi tornare in studio prestissimo e passarvi l'intera giornata a lavorare. La sua vita attraversa poche case e studi, da quella sotto il Monte dei Cappuccini, air«antro» di via Giulia, lunga! e storta, dove si confondono abitazione e studio e i «serpenti» di Marisa Merz coìrono lungo i sofiitti e le prime serie di numeri di Fibonacci risplendono sopra i fornelli di cucina, allo studio, trattato più da deposito, di via Ribera, a quello grande e luminoso del Mulino Feyles, in corso Tassoni, accanto alla galleria di Tucci Russo. Fino all'ultima casa di via Milano e quella patema, mai abbandonata a Milano. A metà Anni 60, fra il '65 e il '66, in corso Moncalieri c'è il Deposito d'Arte Presente, messo su da collezionisti e assistito dagli artisti, c'è l'Unione Culturale, c'è il bar Mulassano, c'è la Galleria di Sperone in via Cesare Battisti, quello è un «quadrilatero» frequentato da Merz e altri artisti, da Zoilo a Mainolfi, da Anselmo a Salvo a Boetti, ed è al Deposito che avviene ima delle prime battaglie culturali dell'arte povera: mentre Pasolini al Teatro Stabile mette in scena Orgia, i bozzetti delle scenografie di Cerali vengono esposte al Deposito. Dove s'infuria la polemica sostenuta da Pistoletto, Prini e Piacentini e un Merz silenzioso. Sarà Pasolini, con la sua mitezza e visione culturale a stemperare gh animi. E se all' Unione Culturale Merz va a vedere Carmelo Bene che prava il suo Don Chisciotte, alla Tana del lupo di Pecette, famosa per un buon Dolcetto, l'artista ci va, sicuro di incontrare Giulio Einaudi, che sta nella stessa via, ma per conoscersi hanno bisogno di imbattersi da Sperane, intomo ad un bicchierino di whisky: un lungo corteggiamento, fra i due medici mancati, che nel '68,, grazie a Tucci Russo, finirà con l'acquisto, da parte dell'editore dell'opera Che fare?, una pentola piena di cera con neon che per alcuni anni accogherà, nell'ingresso, i visitatori del Castello di Pemo, nelle Langhe, e ora è di proprietà della Gam. A Merz è sempre piaciuto discutere fra politica e arte, discutere per timidezza, quella dell'uomo solitario che scivola nell'aggressività e poi, dispiacendosene, diventa dolcissimo e negli altri cerca sicurezza. Discussioni a non finire ai tavoli della Spada Reale, da Biagini, da Betti, discussioni nel piccolo albergo di Portofino vetta, nel'es, per contestare la Biennale, in contrasto con Pascali che ci vuole andare. Ci andrà anche lui, ma senza opere, per correre, inseguito, in piazza San Marco, dai manganelli del Battaglione Padova. Ma capace anche di ritirarsi, per lunghi periodi, in una baita svizzera, o in un mulino delle Valli di Lanzo, dentro la natura, a guardare lo scorrere della Stura, le spirali di bava lasciate dalle lumache, le fascine intrecciate, con gesto antico, dai contadini, a studiare l'arte con cui i valligiani posano le lose di pietra sui tetti delle case. Motivi che ritorneranno nei suoi lavori, igloo compresi, simbolo di protezione primaria, elementare, ripetibile per chi è, o si sente, un nomade della terra, dell'esistenza. Dal 75 al '96, mentre si moltiplicano le mostre all'estera, fra Parigi, New York, Berlino, Londra, Dusseldorf, apre studio al Mulino Feyles, uno spazio aperto, dove le grandi tele, cariche dei suoi segni arcaici, misteriosi, inquietanti, stanno appese come lenzuola, ad asciugare ma anche, nella convinzione dell'artista di poter dire che «son finite». È lì, nel '76] che nella Galleria di Tucci Russo, ma abolendo lo spazio fra studio e luogo espositivo, costruisce Una tavola a spirale per festino con giornali, dove gh odori della frutta prendono i visitatori fin dall'ingresso. Quella dei giornali è sempre stata una sua cifra, fino all'ultima mostra da Giorgio Persano, nel 2003, prima di ricevere il Premio dell' Imperatore a Tokyo, con l'omaggjoAMallarmé, che faceva diventare matti gh archivisti della Stampa, impegnati a travarghene centinaia e centinaia di copie. Per lui il giornale era il «contenitore» dell'accaduto, una cornice di fatti, curiosità, passioni, un vissuto in cui calare frasi che attraversavano il tempo o quelle sequenze di Fibonacci che la sua poesia sfondava dall'ossessiva rigidità matematica. Un'immadinedl Mario.Merz