L'Asia volta le spalle a Buddha

L'Asia volta le spalle a Buddha I DELEGATI RIUNITI IN BIRMANIA. ANCHE IL MONACHESIMO E' IN CRISI L'Asia volta le spalle a Buddha Allarme dal summit mondiale: continuano a calare i fedeli Marco Tosarti CITTA DEL VATICANO Se Atene piange, Sparta non ride: a quanti lamentano l'erosione continua e apparentemente inarrestabile del cristianesimo in Europa, rispondono da Yangoon in Myanmar (Rangoon in Birmania, fino a non molto tempo fa) i delegati del «summit» buddhista mondiale. La «Via», nelle sue molteplici forme, Piccola, Grande e Media, vive uno stato di crisi profonda nei suoi Paesi-culla. Non parliamo dello zen in Giappone; una disciplina che per le sue caratteristiche non è mai stata di massa. Ma ormai, anche se il 54% dei giapponesi si considera buddhista o shintoista, «la grande maggioranza della gente va nei luoghi santi, o nei templi, solo per una festa all'anno». Non è molto migliore la situazione in Thailandia, Paese ricco di pagode dai tetti scintillanti d'oro. Il «Bangkok Post» ha scritto che «i buddhisti di una volta identificavano come fine ultimo della pratica religiosa la fede nell'illuminazione; credevano nell'esistenza di altri mondi, che trascendono la vita presente; e credevano in un cielo che attende i buoni, e un regno infernale per i cattivi. Ma la gente oggi mostra poco interesse in queste credenze». Che cosa ha sostituito gli antichi valori? «Successi tangibili, spesso materiali, nel mondo di oggi emergono come l'unica misura del proprio valore e dei propri atti». Suonano stranamente familiari, queste parole. E la crisi sembra di tale portata che uno studioso thailandese ha avanzato l'ipotesi di una possibile scomparsa, a medio termine, del buddhismo come religione di massa nel Paese. In Cambogia, una nazione che sta ancora leccandosi le ferite dopo la folle marea dei khmer rossi che l'ha sommersa, si costruiscono pagode e si rimettono in piedi quelle devastate, ma gli esperti presenti al summit hanno parlato di uno stato disastroso del monachesimo locale, che ha vissuto episodi diffusi di suicidi collettivi, pedofilia, uso di droghe, violenza e atti di indisciplina collettiva. Del Tibet è meglio non parlare: l'occupazione cinese ha identificato sin dall'inizio nella struttura del monachesimo l'avversario principale, e ha infierito su conventi e templi, cercando di «desertificare» la pratica religiosa. E la fortuna che il buddhismo tibetano conosce in Occidente non equihbra le ferite profonde inflitte in patria. Anche se adesso gli occupanti intuiscono l'interesse occidentale per l'atmosfera mistica, e si affrettano a lucidare e restaurare gli edifici, e a riempirli di «cappucci rossi» e «cappucci gialli». E poi c'è Myanmar, dove si è svolto il summit; una scelta che ha provocato polemiche e cancellazioni. Il regime militare golpista, e antidemocratico, ha finanziato e ospitato il «summit». E', se non altro, molto dubbio l'interesse religioso del regime birma- no, che però ha fiutato, come i cinesi in Tibet, l'affare turistico legato ai tetti dorati delle pagode e alle tonache arancioni dei monaci. Certo, abituati come siamo ormai da decenni a un legame stretto fra valori religiosi e comportamenti e avvenimenti pubblici, l'indifferenza mostrata da non pochi delegati alla situazione penosa dei diritti umani in Myanmar non può non colpirci. «Non parliamo di queste cose, siamo interessati solo alla meditazione», ha dichiarato Tamar Apel, 65 anni, buddhista israeliano. Ma anche il documento finale è sorprendente: si parla solo di proteggere i monumenti buddhisti, costruire più centri nel mondo per propagare meglio gli insegnamenti del Buddha, e così via. Non una parola sulle altre religioni, o su quell'oggetto che va sotto il nome di «dialogo interreligioso». E in un summit mondiale, scusate se è un'omissione di poco conto. Tragedia senza fine in Tibet: «I cinesi stanno cancellando la pratica religiosa» Dal Tibet alla Thailandia sta crollando l'«appeal» del monachesimo buddhista

Persone citate: Tamar Apel