LE DUE UCRAINE

LE DUE UCRAINE IL CASO KIEV ALLARMA L'EUROPA LE DUE UCRAINE EnzoBettha DOPO cinque giorni di pacifica irruenza di piazza il dato risulta incontrovertibile. La truffa elettorale, intemazionalmente diagnosticata e denunciata dalle massime autorità politiche di Washington e di Bruxelles, è stata infine riconosciuta anche dalla Corte Suprema di Kiev: gli alti magistrati ucraini hanno di fatto annullato fl risultato del ballottaggio «congelando» la presunta vittoria del candidato filorusso alla presidenza, il primo ministro Viktor Yanukovich appoggiato dal presidente uscente Kuchma e, quel che più conta e preoccupa, caparbiamente protetto da Vladimir Putin. Lunedì 29 novembre il sinodo della Corte dovrebbe sciogliere ogni riserva e dire al Paese in subbuglio e al mondo perplesso se il vero presidente dell'Ucraina è l'occidentalista Viktor Yushenko oppure se le urne dovranno riaprirsi per un ultimo e definitivo turno. Questa è la terza lotta per l'indipendenza che nei tempi moderni gh ucraini, detti anche «piccoli russi», svolgono per difendersi dalle grinfie dei «grandi russi» e dai fantasmi di una storia ambigua quanto paradossale che di volta in volta h vide ostetrici e vittime dello Stato russo. Il primo tentativo autonomistico durò dal 1917 al 1920, anno in cui una fragile repubblica assembleare d'Ucraina venne inghiottita dalla Russia bolscevica. Il secondo iniziò nel 1991, con il crollo dell'impero sovietico e la nascita della Csi, o Comunità di Stati indipendenti, quando l'Ucraina divenne uno Stato a sovranità limitata molestato e controllato, all'incirca come la Bielorussia, dalla Federazione di Eltsin e poi di Putin. Materie del contendere erano la Crimea, Sebastopoli, la flotta del Mar Nero, gh arsenah nucleari. Il terzo tentativo si sta svolgendo ora sotto i nostri occhi e ci riporta alla mente una quantità di analogie culturali, storiche e politiche. La pericolosa spaccatura tra le due Ucraine, una russificata dell'Est ortodosso e cosacco e l'altra europeizzata e cattolica di un Ovest che a suo tempo fu polacco, lituano, austroungarico, sembra riprodurre come in vitro anacronistico l'annosa disputa tra slavofili e occidentalisti nella Russia ottocentesca. Chissà per chi parteggerebbe oggi un Gogol redivivo, ucraino, affascinato dal cattoheesimo romano, e tuttavia padre fondatore della grande letteratura russa. Poi le masse che assediano i palazzi del potere, che ascoltano e comprendono l'oratoria polacca di Lech Walesa, il vecchio tribuno di Solidamosc, non evocano forse lo scenario che nella vicina Varsavia vide risorgere una nazione libera e crollare il comunismo d'importazione russa? Le medesime masse non ricordano anche quelle che nelle ultime ore del Novecento circondarono la Skupstina di Belgrado e misero in crisi l'etnocomunismo di Milosevic? Infine, il paragone più vicino, più intemo all'universo ex sovietico, è quello della Georgia ed è quello che maggiormente sembra angosciare e togliere il sonno agli inquilini del Cremlino. Durante il recente incontro all'Aja coi rappresentanti europei, Putin, che aveva partecipato di persona alla campagna elettorale dello «slavofìlo» Yanukovich, ad un certo punto è sbottato dicendo: «Non sono le piazze che possono decidere il destino democratico delle nazioni». In quell'istante il suo pensiero certo correva alla piazza di Tbilisi che un anno fa, proprio sull'onda di un risultato elettorale contestato, aveva esautorato il presidente Shevardnadze, oscillante fra Est ed Ovest, aprendo la strada al giovane Mikhail Saakashvili decisamente filoamericano. Quasi la stessa scena si va ora ripetendo a Kiev dove centinaia di migliaia di dimostranti, sostenuti dall'esempio e dai messaggi di Saakashvili, dagli incitamenti di Walesa, dalle preghiere del Papa di madre ucraina, dai moniti di Colin Powell e di Solana indirizzati a Mosca, fanno capire di essere pronti ad andare se necessario fino infondo: dalla disobbedienza civile alla guerra civile. L'impressione è che la massa occidentalista che ha votato l'autoproclamato presidente Yushenko sia nettamente maggioritaria nel Paese, che domini la strada e affascini le forze dell'ordine, in attesa che l'Occidente faccia la sua parte e che la rivolta pacifica si fermi sul ciglio dell'insurrezione violenta. Ma l'Occidente, sia americano che europeo, potrà nell'epoca del terrorismo islamico andare oltre la reprimenda verbale e affrontare il rischio di un ritomo alla guerra fredda con una Russia alleata nella lotta al terrorismo? Soprattutto l'amministrazione del secondo Bush è ambivalente nei confronti di Mosca. L'Ucraina, grande quanto la Francia, coi suoi 50 milioni di litigiosi abitanti, è una patata bollente europea che Washington lascerà infine sulla tavola già ingombra dei Venticinque europei. Nel calcolo globale degli americani, interamente impegnati nella strategia d'uscita dall'Iraq, il rapporto realistico con Mosca conta molto più dei contrasti per Kiev. A questo punto la Polonia, per evitare il caos ucraino alla sua frontiera, si prepara a giocare in proprio un molo di mediazione sottile e competente. Probabilmente, dopo il grido di Walesa, saranno le prediche sussurrate dal presidente polacco Kwasniewski all'orecchio dei contendenti ucraini quelle che potranno influire di più sulla crisi: deviandola dallo scontro armato, impedendo l'intervento fratemo russo e scongiurando il pericolo che essa diventi una fotocopia satellitare della Bielorussia del folle veterostalinista Lukascenko. Di più, per ora, non si può azzardare.