«Congratulazioni presidente, ha vinto» di Paolo Mastrolilli

«Congratulazioni presidente, ha vinto» A BOSTON LA RESA DEL CANDIDATO DEMOCRATICO «Congratulazioni presidente, ha vinto» reportage Paolo Mastrolilli BOSTON NELLE elezioni degli Stati Uniti non ci sono mai perdenti, perchéla mattina dopo ci svegliamo tutti americani. Questo è il nostro privilegio e anche il nostro obbligo, per trovare cause comuni senza rancore». John Forbes Kerry è un uomo che ha visitato il paradiso e l'inferno nel giro di un paio d'ore, quando si presenta nella storica sala Faneuil di Boston per ammettere che il suo sogno personale è finito. Alle undici del mattino ha chiamato George Bush per cedergli le armi, dopo aver realizzato che in Ohio non troverà mai abbastanza voti per sloggiarlo dalla Casa Bianca. «Congratulazioni signor presidente - ha detto nella telefonata più difficile della sua vita ma adesso dobbiamo impegnarci per riunificare il Paese». «Lei - ha risposto Bush - ha condotto una forte campagna, ed è stato un avversario di valore. Deve esseme orgoglioso. Sono d'accordo, dobbiamo fare qualcosa per la divisione del Paese». La notte più lunga nella vita del veterano del Vietnam, che aveva scelto come inno della sua campagna «No suirender», niente resa, è cominciata verso le quattro del pomeriggio di martedì. Allora i siti Internet iniziano a mandare in rete le prime proiezioni sul voto, e nemmeno i collaboratori più stretti di Kerry possono credere ai loro occhi: il senatore è avanti di venti punti in Pennsylvania, quattro in Ohio e tre in Florida, e resta in gara persino negli stati conservatori del Sud, tipo Missouri e Virginia. Mike McCurry, il portavoce della campagma, invita alla prudenza: «Sono tendenze preliminari, è troppo presto per giudicare». Gli esperti avvertono che i dati si rifericono al mattino, quando vanno a votare soprattutto le donne, e quindi bisogna aspettare quelli del pomeriggio. Un paio d'ore dopo, però, arrivano altre proiezioni confortanti: il vantaggio si sta restringendo, ma tiene, soprattutto negli stati decisivi. Le televisioni cominciano a commentare il possibile cambio d'inquilino alla Casa Bianca, dove intanto nessuno fiata. Invece nei corridoi dellhotel Fairmont di. Boston, dove i democratici hanno montato il loro quartier generale, il capo del partito McAuliffe si congratula apertamente con i collaboratori per la vittoria, quando le telecamere sono spente. Il senatore Ted Kennedy, pigmalione di Kerry, scende tra la folla per disegnare i piani della nuova amministrazione: «John è un mio amico, e sono orgoglioso di chiamarlo mio presidente. Riporteremo il buonsenso alla Casa Bianca, e riconquisteremo il rispetto del mondo». Centinaia di persone intanto si ammassano nella Copley Square, dove c'è già la festa per il discorso vittorioso di Kerry, come la parata tenuta qualche giorno prima dai campioni di baseball dei Red Sox. Le televi- sioni, però, esitano a trasformare le promesse deUe proiezioni in stati ufficialmente assegnati al senatore. Verso le otto della sera il sogno inizia a trasformarsi in incubo. I portavoce continuano a ripetere che va tutto bene, ma la conta ufficiale dei voti non conferma gli exit poli. Gli stati prendono a cadere uno dopo l'altro nella casella di Bush, finché non tocca alla Florida e all'Ohio, quelli decisivi di cui Kerry ha assolutamente bisogno. La manager Mary Beth Cahill si aggrappa ai voti provvisori ancora non contati a Cleveland e Toledo, nella speranza di trovarci abbastanza consensi per rovesciare una situazione disperata. Verso l'ima e mezza il candidato vice presidente Edwards sale sul palco di Copley Square, per annunciare che tutto è rimandato al giorno dopo: «E' stata una lunga notte. Ma abbiamo aspettato quattro anni per questa vittoria, e quindi possiamo aspettare un'altra notte. Noi combatteremo per ogni voto». Sembra da capo la Florida del Duemila, con gli avvocati pronti a volare in Ohio, e i consiglieri di Kerry si riuniscono nella sua casa da Beacon Hill per disegnare il piano di attacco. Decidono di dormirci sopra e si danno appuntamento al giorno dopo, per rivalutare la situazione. La mattina successiva, infatti, tra i primi a bussare a casa Kerry è proprio il senato¬ re Kennedy con la moglie Victoria. Dentro ci sono già il fratello Cameron, il vice Edwards, le fighe Alexandra e Vanessa, la moglie Teresa e i capi della campagna. Dopo un vertice, neppure tanto lungo, la realtà si sovrappone al sogno: questa non è la Florida. In Ohio non ci sono abbastanza voti per vincere, e quindi è mutile trascinare gli Stati Uniti in un'altra tragicommedia legale. Un paio d'ore dopo Kerry sale sulla macchina insieme a Teresa per andare alla Faneuil Hall, uno di quei posti storici dell'indipendenza americana che solo Boston può sfoggiare. Lo introduce Edwards, lasciando intendere che già pensa alle presidenziali del 2008: «La battagha che abbia¬ mo cominciato continua». Su quel palco, però, il senatore toma ad essere un pacato uomo di Stato: «Ho avuto una buona conversazione col presidente Bush. Gli ho detto che l'America non può correre il rischio della divisione. Dobbiamo riunificarci e da oggi possiamo cominciare a sanare i contrasti della campagna». John spiega ai militanti che hanno sacrificato due anni di vita per lui perché ha mollato: «Non l'avrei mai fatto, ma non potevamo vincere facendo cause legali. Non avevamo abbastanza voti. Non perdete la fede, però. Verrà il momento e verrà l'elezione in cui il vostro lavoro e il vostro voto cambieranno il mondo». Ora, però, ci sono altre priorità: «Dobbiamo stringerci intorno ai nostri soldati per vincere la guerra al terrorismo e la lotta in Iraq». A quel punto arriva anche il momento della commozione, per questo senatore aristocratico del New England, accusato spesso di essere troppo distante. Con la voce rotta, mentre le figlie lo fissano con gli occhi umidi, promette: «Ciò che abbiamo cominciato con questa campagna non finisce qui. Continuerò a combattere per il lavoro, la sanità, l'ambiente e la reputazione degli Stati Uniti nel mondo. Credo che il nostro sogno si realizzerà, perché noi siamo l'America, e l'America guarda sempre avanti». 66 Nelle elezioni degli Stati Uniti non ci sono mai perdenti perché la mattina dopo ci svegliamo tutti americani Questo è il nostro privilegio e anche il nostro obbligo, quello di trovare cause comuni senza rancore. Adesso repubblicani e democratici dobbiamo impegnarci fianco a fianco per costruire l'unità A A del Paese 55 ^Éi Le' Pres^ente "" ha condotto una forte campagna ed è stato un avversario di valore. Deve esserne orgoglioso. Ma dobbiamo tutti e due fare qualcosa per la divisione che si è aperta in questi mesi nel Paese. Ho avuto una buona conversazione al telefono con Bush e gli ho detto che dobbiamolasciarci alle A Aspalle il passato 55 ifaisL Non avrei "" mai abbandonato la battaglia ma non potevamo vincere facendo cause legali Non avevamo abbastanza voti. Però non dovete perdere la fede. Verrà il momento e l'elezione in cui il vostro voto cambierà il mondo Ora stringiamoci ai soldati per A A vincere la guerra 55 A 5 A 5 John Kerry al Faneuil Hall di Boston abbraccia la moglleTeresa dopo II discorso di accettazione della sconfitta: «Dobbiamo rispettare il voto degli elettori»