ROMA '57 e la piccola Italia prima del Trattato

ROMA '57 e la piccola Italia prima del Trattato EVA DEM ROMA '57 e la piccola Italia prima del Trattato ROMA DIN doni Din don! E insomma: l'Italia che quasi cmquant'anni orsono vide la nascita e tenne battesimo la «Piccola Europa» a sei era ancora un Paese che sanzionò, celebrò e annunciò quell'evento al suono di campane. Erano le 18,47 del 25 marzo 1957 quando su un grosso volume di pelle azzurra venne apposta la prima firma dei Trattati di Roma per l'istituzione del Mec e dell'Euratom; e dalla torre campanaria del Campidoglio, in quel preciso istante, prese vigorosamente a sciogliersi l'antico bronzo della «Patarìna». Din don! Alcuni quotidiani, il giorno seguente, chiamarono quell'antica campana la «Papalina». E un po' si capisce anche l'errore: erano anni decisamente democristiani, clericali. Neil'accogliere nel Palazzo Senatorio le delegazioni dei ministri degli Esteri di Francia, Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo il sindaco di Roma, Tupini, tenne a precisare che «dopo il Golgota, il Campidoglio è il colle più sacro della civiltà». Questo non aveva impedito che vi spirasse, quel giorno, una certa atmosfera da sartoria teatrale: commessi in sgargianti costumi cinquecenteschi, valletti in polpe, cerimonieri in divìsa di gala con feluca e spadino, arazzi e bandiere. Poche persone, anzi pochi ombrelli sul piazzale michelangiolesco. Era un lunedì e pioveva. Raccontano le cronache che gli agenti di Ps fermarono alarne donne che distribuivano «manifestini anti-euròpeistici», presumibilmente del Pei, in cui si diceva che i trattati avrebbero approfondito il solco che divìdeva l'Europa. E questo, sia pure da una prospettiva del tutto opposta a quella delle attiviste, era vero. Ancora fresca la ferita per l'invasione sovietica dell'Ungheria; e freschissima la crisi di Suez, con le incomprensioni tra Francia e Gran Bretagna da ima parte e gli StatiUniti dall'altra. Proprio quelle due crisi avevano paradossalmente accelerato il processo di unificazione: «Non abbiamo tempo da perdere - era stato il commento di Konrad Adenauer -, l'Europa sarà la nostra vendetta». H cancelliere tedesco aveva 81 anni, e pur essendo reduce da un viaggio aereo terrificante, apparve a Roma arzillo e compassato, anche «robusto nelle membra», come notò Nicola Adelfi sulla Stampa. La scelta di Roma come sede per la firma non era stata di Adenauer, ma del ministro belga Henri-Paul Spaak (lo zio di Catherine Spaak, allora dodicenne), uomo amabile e tenacissimo leader europeista, e certo rientrava nella sua strategia per stabilire a Bruxelles - e non a Milano - gli uffici della futura Commissione. Come poi fu. Dalla Francia atterrò il colto e raffinato ministro Pineau; mentre dal Lussemburgo giunse il florido Beck del quale, pur rispettosamente, fu rilevata una certa somiglianza con Babbo Natale. Primo atto di solidarietà europeistica si ritenne infine quello dell'olandese Van Luns, il più giovane dei firmatari, che rinunciò a intervenire in lingua fiamminga, scegliendo ilfrancese. In mattinata tum,,a messa nella basilica divSaiy Lorenzo, dove proprio quel glorilo trovarono simbolica e definitiva sepoltura le spoglie di Alcide De Gasperi, in un monumento funebre che Amintore Fanfani volle realizzato da Giacomo Manzù. Quindi, nel pomeriggio, il lungo e silenzioso corteo di berline scure salì agevolmente, dato il traffico di allora, il luogo prescelto. Dalla Sala degli Grazi e Curiazi, per far spazio a un gigantesco tavolo disposto tra le due immense statue di Innocenzo X e Urbano vm, erano stati rimossi suppellettili, festoni, bandiere, fasci di fiorì e perfino le alabarde. A colpo d'occhio predominavano il rosso del panno damascato, su cui erano disposti dodici servizi da scrittoio, e l'oro delle poltroncine. I colori del potere pre-televisivo. Ma qualcosa non aveva funzionato e lì dentro si sudava e si respirava a fatica per il clima umidiccio, le lampade di grosso voltaggio e il pienone di gente. A rappresentare l'Italia, il presidente del Consiglio Segni: «Più che mai bianco, esile, affaticato». Sempre Adelfi lo dipinge con efficacia mentre sorride «pateticamente». Al suo fianco il ministro degli Esteri Gaetano Martino. Questi era di sicuro uno dei trionfatori dell'accordo, abilmente propiziato due anni prima nella conferenza di Messina, ma a quei tempi - pure pre-televisivi - agli uomini di Stato non era troppo concesso di esternare le loro emozioni, per cui il papà dell'attuale ministro Antonio è sobriamente descritto come «addirittura contento». E del resto. Era un'Italia, quella, al tempo stesso tenera e smaniosa, compatta e contraddittoria. L'Italia di Cocco Bill e delle «Ceneri di Gramsci», del «Pasticciaccio» e di Carosello. L'Italia del «Musichiere» (e di nuovo cantava: «Domenica è sempre domenica I Si sveglia la città con le campane») e delle ulteriori reprimende dell'Osservatone romano per le ballerine. L'Italia, ancora, del terrorismo altoatesino e del successo internazionale del termine «pappagalli», intesi come galanti disturbatori di donne per la strada. Fatto sta che l'Europa, per quel Paese, era un'entità poeticamente remota, un'intenzione, forse, una speranza, non molto di più. La cerimonia durò circa un'ora. Prima i discorsi, poi la danza dei valletti che a tutti e dodici i firmatari consegnarono una medaglia e i libroni con il testo dei trattati. Le firme in tutto furono 92, ma siccome l'Italia resta sempre l'Italia - e Roma, Roma - si è saputo molto tempo dopo che tutti siglarono diverse parti «in bianco»: all'ultimo momento i tedeschi avevano posto problemi su certe clausole, e non ci fu il tempo di trascrivere i nuovi accordi su carta pergamena. Sulla stampa e per la verità anche nel mondo politico l'entusiasmo fu piuttosto contenuto, come confermano a distanza quasi di mezzo secolo i diari di alcuni protagonisti. Taviani, per dire, parla di insuccesso; mentre Nenni, che pure è possibilista, quel giorno preferisce occuparsi delle elezioni a Cremona. Altiero Spinelli è addirittura sprezzante. Proprio in quel periodo sta girando per il continente in treno, Milano, Lucerna, Strasburgo, Bologna, Torino, prepara il congresso del popolo europeo, lavora dal basso, contro la «falsa europa dei governi», e scrive europa addirittura in minuscolo. Annota il 26 marzo 1957: «Oggi ho letto sui giornali la notizia della firma dei trattati. Un gigantesco imbroglio». Alcuni, nei suo stesso aiqbiente, non sono d'accordo. Il giovane Eugenio Scalfari, ad esempio, sul Mondo: i trattati sono un'occasione, un passo avanti contro i monopoli che ostacolano «lo sviluppo equilibrato del Paese». Ieri come oggi, verrebbe da dire, preparandosi a riascoltare in eurovisione lo squillo della «Patarina». Konrad Adenauer. Il cancelliere tedesco aveva 81 anni all'epoca della firma In alto da sinistra, il ministro degli Esteri Walter Hallstein, Antonio Segni e il ministro degli Esteri Gaetano Martino alla firma del Trattato di Roma Qui a sinistra, un'immagine di allora di Oscar Luigi Scalfaro