Nell'ospedale dei reduci il voto è tutto per Bush

Nell'ospedale dei reduci il voto è tutto per Bush FORT HOOD, LA BASE DOVE VIVONO 45 MILA SOLDATI Nell'ospedale dei reduci il voto è tutto per Bush «L'ho scelto perché dobbiamo finire il lavoro». «Se non ti fidi del tuo comandante in capo, allora vai a fare un altro mestiere» reportage Paolo Mastrolilli FORT H00D (Texas) HO già votato, e per Bush. Lo stesso ha fatto mia moglie Tiffany, perché lui ci dà più fiducia come comandante in capo». E' (piasi un miracolo che il caporale Joseph Bridges, 29 anni, riesca a pronunciare queste parole. Anzi, lui è convinto che sia un miracolo: «Il buon Dio ha deviato quel proiettile, e ha voluto che io potessi raccontare la mia storia». Joseph è un soldato della Prima divisione di Cavalleria, e la storia di cui parla è avvenuta a Baghdad il 6 aprile scorso: «Verso le cinque del pomeriggio ci hanno detto che, davanti a una moschea vicino a Sadr City, il quartiere degli sciiti, l'insurrezione stava montando. Quando siamo arrivati i guerriglieri erano una ventina, ma in poco tempo sono diventati oltre cento, appostati con i mitra AK 47 anche sui tetti. Uno ci ha sparato con il lanciarazzi RPG ed è cominciato l'inferno. Ci tiravano addosso da tutte le parti. Io ho imbracciato il mitra 2-40 e ho mirato verso i tetti: sono sicuro di averne ammazzati nove o dieci. Poi ho sentito un bruciore al ginocchio, coinè una puntura di vespa, ma non ci ho fatto caso. Quando ho ricaricato, però, è successo qualcosa di strano: ho inziato a vedere la battaglia come al rallentatore. Burke, il nostro infermiere di 19 anni, mi ha detto di stendermi. Lui era ferito al piede, ma anziché curarsi tirava fuori bende per pressarle contro la mia faccia e la mia gamba. Quando mi sono risvegliato, in ospedale a Baghdad, ho capito che cos'era successo: un proiettile mi aveva perforato il ginocchio da parte a parte, frantumando il femore. Un altro era rimbalzato sul giubbetto, proprio all'altezza del cuore, ma era finito contro la mandibola sinistra e l'aveva spaccata. Ho avuto bisogno di tre operazioni e undici trasfusioni di sangue,e adesso ho una barra metallica nella gamba e una nella faccia per tenere insieme le ossa». Joseph ci parla mentre aspetta i medici nel Damali Army Community Hospital di Fort Hood, la più grande base per le truppe corazzate negli Stati Uniti: 335 miglia quadrate e 831 miglia di strade inteme, dove vivono oltre 160 mila persone (45 mila soldati, le loro famiglie e gli impiegati civili). Ogni giorno in questo ospedale nascono fra 6 e 10 bambini. Una città militare, dunque, dove sono basate la Quarta divisione di Fanteria e la Prima di Cavalleria. Il Texas, insieme alla California, è lo Stato americano con più vittime in Iraq, ma è anche «Bush country», la terra del presidente, che nel 2000 ha vinto questo Stato col 59 per cento dei voti contro il 38 di Gore. Il caporale Bridges, due figli di 7 e 9 anni, è convinto che la guerra in Iraq non sia stata preparata a dovere: «Per stabilizzare il Paese serviva il doppio di truppe. E comunque non ci hanno permesso di usare tutta la nostra forza, per sconfiggere la guerriglia». Crede anche che passeranno diversi anni, prima che tomi la pace: «Resteremo laggiù a tempo indeterminato, come in Corea, perché la vecchia generazione non vuole la democrazia e combatterà fino a quando i giovani non la metterano da parte». Eppure lui non ha dubbi sul suo voto: «Ho scelto Bush perché dobbiamo finire il lavoro. Perché sono contro l'aborto. Perché condivido la sua agenda sociale». Joseph non è certo che continuerà a fare il soldato: «Dipende dai medici: ho già chiesto due volte di tornare in Iraq, per stare coi ragazzi, ma loro mi hanno detto di no. Se dovrò chiudere con l'esercito, farò il pastore pentecostale: credo che Dio mi abbia chiamato». La moglie Tiffany, 28 anni, gli stringe la mano e lo guarda con gli occhi lucidi: «Sapevo che lo avrebbero ferito, prima che partisse gli avevo detto che me lo sentivo. Però anch'io ho votato Bush, perché bisogna vincere la guerra contro i terroristi: se non andiamo a prenderli dove sono, torneranno in America a colpirci». Secondo un sondaggio del giornale ((Army Times», il 72 per cento dei militari in servizio attivo la pensa come loro, mentre solo il 17 sceglierà Kerry. Risultati simili al ^National Annenberg Election Survey», dove il 69 per cento dei soldati e dei loro famigliari si fida di Bush, contro il 24 che preferisce il senatore democratico, nonostante due terzi abbiano dubbi sulla gestione della guerra in Iraq. In totale i militari in servizio, la Guardia Nazionale e i riservisti sono 2,4 milioni di elettori, che già nel 2000 avevano dato un bel vantaggio al presidente, soprattutto in Stati contesi come la Florida. Il sottotenente Jeffrey Schutz, 24 anni, non è sicuro di rientrare in questo gruppo: «Sono indeciso, non so ancora per chi voterò». Lui è stato ferito il 5 maggio da uno dei terribili led, gli ordigni rudimentali nascosti lungo le strade. Era di scorta a un pezzo grosso dell'amministrazione americana, quando il suo mezzo è saltato in aria. Le schegge gli hanno devastato i piedi e ci sono volute cinque operazioni - con tre mesi e mezzo di sedia a rotelle - per farlo tornare a camminare. Col bastone. E' questo il motivo dell'incertezza? «No, non provo risentimento. Non è che mi alzo la mattina, sento dolore ai piedi, e mi chiedo dove siano le armi di distruzione di massa. I miei sono dubbi di coscienza». Nemmeno Keiry, però, lo ha convinto: «Rispetto il suo servizio in Vietnam. Ci vuole coraggio per andare in una guerra così e giudico ingiuste le critiche sulle sue medaglie. Non condivido invece quello che ha fatto al ritorno, quando le ha buttate per protesta». Non condivide nemmeno l'ammutinamento di un plotone, avvenuto venerdì a Baghdad: «Allora perché entri nell'esercito? Per un tranquillo lavoro di scrivania?». Il sergente Keith Lassandro, fisioterapista di Schutz, lo guarda con ammirazione: ^Serviranno a qualcosa tutti quesci cacrifici? Lo spero. Questi sono ragazzi duri, vogliono guarire per tornare a servire». Christina Calcosky è un'assistente sociale che segue i feriti, e vede in ognuno la faccia di suo figlio: «Lui è in Marina, pilota di eheotteri. Ha fatto diverse missioni in Iraq, senza dirmelo. Non sono mai stata per la guerra e spero che finisca: nessuno ama combattere. Ma quando ci siamo, dobbiamo sostenere le truppe». Qualche reduce che voterà democratico c'è, per esempio Robert Acosta, che ha perso un braccio in Iraq e ha girato uno spot televisivo in cui parla così: «Mi hanno chiamato a servire perché il governo diceva che c'erano le armi di distruzione di massa. Non le abbiamo trovate. Ora, quando la gente mi chiede dov'è finito il mio braccio, cerco le' parole, ma non le trovo». Anche alcuni madri di soldati morti hanno girato spot, trasmessi in Nevada, Florida e New Mexico. Secondo il colonnello Robert Gombeski, comandante del dipartimento incaricato di assistere i feriti che tornano dall'Iraq a Fort Hood, queste però sono eccezioni: «Io penso che il sondaggio di Army Times rifletta bene la tendenza politica dei militari, per una ragione ovvia di coerenza. Se il comandante in capo ti dice di conquistare ima collina, tu lo segui. Se non ti fidi, vai a fare un altro mestiere». I primi soccorsi a un soldato ferito in combattimento