Il romanzo deve far vedere, il film deve far pensare di Gianfranco Marrone
Il romanzo deve far vedere, il film deve far pensare Il romanzo deve far vedere, il film deve far pensare Gianfranco Marrone QUAL è la gamba mancante del capitano Achab? Melville non lo dice, lasciando al lettore la libertà di immaginare la conformazione fisica del suo personaggio. Quando però John Huston ia trasposto sullo schermo MobyDick, ha dovuto in qualche modo decidere su quale arto far zoppicare Gregory Peck, di fatto imponendo allo spettatore una caratterizzazione dell'eroe che la pagina scritta non dava affatto. E il regista non poteva fare altrimenti: lavorando con un linguaggio eminentemente visivo quale quello del cinema, Huston ha arricchito il testo letterario di partenza, ma al tempo stesso ha sostanzialmente impoverito - come da tempo sottolinea Umberto Eco nei suoi studi su traduzione e trasposizione - le capacità interpretative del fruitore dinanzi alla celebre vicenda della balena bianca. Nel libro I vestiti nuovi dell' imperatore, denso saggio dedicato alla teoria e alla pratica deh' adattamento cinematografico di opere letterarie e teatrah. Armando Fumagalli prova ad affrontare la questione dal punto di vista inverso. Innanzitutto, ribadisce con forza che, prima ancora d'essere dotati di precise differenze linguistiche, letteratura e cinema hanno una basilare comunanza d'intenti. Entrambi raccontano storie. Non nel senso che inventano universi immaginari più o meno gradevoli, ma in quello per cui costruiscono vicende che prendono senso dal mondo e spesso ghelo ridanno amplificato. «Il cinema è come la vita, ma con le parti noiose taghate», diceva un grande cineasta. E in effetti narrare significa dare forma esemplare all'esperienza, dunque dotarla di quel significato che, forse, lo scorrere immediato della vita non sa coghere integralmente e precisamente. In secondo luogo, Fumagalli ribadisce che, laddove ruba al lettore dei romanzi una parte della sua capacità immaginativa, il film in compenso regala allo spettatore un'altra forma di libertà: quella di ricostruire, con le immagini e la musica, ì pensieri e gh affetti dei personaggi. Un romanziere deve descrivere verbalmente la cosiddetta interiorità dei suoi protagonisti, conservando per sé l'atto di parola. Lo sceneggiatore di un film, invece, può solo mostrare, affidando soprattutto alla componente visiva il ruolo di trasmettere quell'attività intellettuale e passionale dei personaggi che dà a ogni vicenda ben'costruita tutto lo spessore culturale oltre che estetico. Dice Eco: Nicole Kidman che interpreta Isabel Archer, a causa della sua forte presenza scenica, toghe al personaggio di Henry James quell'aura di indeterminata beUezza che in Ritratto di signora lasciava sognare il lettere. Rephca Fumagalli: certo, ma il problema di Jane Campion, quando ha fatto il film, non era tanto quello di riprodurre l'esteriorità della celebre eroina americana in viaggio per l'Europa, quanto semmai di far comprendere allo spettatore i suoi turbamenti psicologici, le sue perplessità, i suoi ripensamenti, le sue incomprensioni. Addirittura, la regista austrahana ha dovuto tradurre sullo schermo quel gioco fra detto e non detto che fa del celebre romanzo di James innanzitutto la storia di due segreti. L'insistente primo piano sul viso di Isabel/Nicole non serve allora a imporci la manifestazione estetica troppo evidente dell'attrice, (pianto a restituirci visivamente l'incapacità del personaggio a capire le trame che vengono ordite a sua insaputa. Chi ha ragione? Ovviamente, entrambi. Laddove l'imo insiste su ciò che l'immagine toghe alla parola, l'altro ricorda quando quest'ultima tolga alla prima. I due linguaggi, verbale e audiovisivo, hanno limiti costitutivi, intrinseci alla materia di cui dispongono per raccontare le loro storie; delegano pertanto ai loro rispettivi fruitori la responsabilità di capire quel che loro non possono dire. Il problema, allora, è un altro: quello di superare le costrizioni del mezzo comunicativo usato dahe due arti, la pagina e lo schermo, per riuscire quanto meno a suggerire quel che ora l'una ora l'altro non possono proferire esplicitamente. La letteratura deve provare a offrire effetti visivi che, in linea di principio, non le competono (l'antica retorica parlava a questo proposito della figura deh'ipotiposi). Il cinema, a sua volta, deve chiedere all'immagine di mostrare pensieri e passioni. Si passa così dahe questioni teoriche circa le specificità dei due linguaggi agh aspetti pratici riguardanti quel che essi riescono comunque a comunicare. Lo stesso Fumagalli fa a tale proposito l'esempio di A Beautifitl Mind, film che è riuscito a rendere visivamente quanto accade neha mente matematica del protagonista Nash. Mediante una serie di espedienti (il gioco di forme tra il riflesso d'un bicchiere e i disegni su una cravatta, gh schemi disegnati sul vetro di una finestra, le soggettive di Nash che trasforma in modelli alcune sequenze di numeri, per non parlare degh effetti speciah) riesce possibile visualizzare un pensiero astratto che è quello della logica matematica. Di fatto consentendo al cinema di trascendere i propri limiti costitutivi, autoproponendosi come una sorta di entità miracolosa. E forse è proprio questo che pensa Nash quando, guardando un prisma che riproduce tutti i colori dell'universo, sostiene: «Dio dev'essere un pittore». Adattare per lo schermo un'opera letteraria: due linguaggi in conflitto o integrazione reciproca? -5^ ■,^ u ^'*' Armando Fumagalli I vestiti nuovi del narratore L'adattamento da letteratura a cinema //castoro, pp. 240,221.50 S A G G
Luoghi citati: Beautifitl Mind, Europa
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