Dove danzava la Ninfa senza veli sono rimasti soltanto gli stracci

Dove danzava la Ninfa senza veli sono rimasti soltanto gli stracci Dove danzava la Ninfa senza veli sono rimasti soltanto gli stracci Marco BelpolHi NEL 1893 uno storico tedesco dell'arte, Aby Warburg, identifica nella Ninfa dipinta da Botticelli in Nascita di Venere e nella Primavera, ma anche da Ghirlandaio a Santa Maria Novella, il «simbolo misterioso di una vitalità pagana che invade senza preavviso lo spazio strutturato della rappresentazione sacra medievale», scrivono Silvia Contarini e Maurizio Ghelardi nel saggio d'apertura della rivistaAut Aut interamente dedicato a Warburg {Aby Warburg. La dialettica dell'immagine, a cura dì Davide Stimilli). La ninfa è un "motivo", ma anche una "forma". Incarna, sostiene Warburg, una passione che ha nel movimento dei piedi, nelle pieghe delle vesti, nei capelli e nel panneggio al vento, la sua forma precipua. All'incrocio di tre coordinate fondamentah - memoria, desiderio e tempo - il lavoro di Warburg, che si compendia in una serie d'articoli, conferenze e appunti, è destinato a sconvolgere le fondamenta stesse della storia dell'arte e, tramite la sua celebre biblioteca e le successive attività, ad influenzare profondamente la cultura europea del Novecento. Warburg inaugura la ricerca delle "somiglianze nascoste" nella storia dell'arte dal momento che è il primo a pensare «le immagini in quanto inesauribili», scrive Georges Didi-Huberman nel suo saggio dedicato alla Primavera interpretata da Warburg. Ora, seguendo le tracce del panneggio della Ninfa, Didi-Huberman, che è oggi con ogni probabilità il più originale storico dell'arte europeo, ha costruito un suo personale percorso dentro il mondo delle immagini che dal Rinascimento neoplatonico fiorentino, e dai suoi capolavori, ci conduce nel cuore stesso della cultura moderna, al Novecento e alle avanguardie. Il libro s'intitola in modo programmatico Ninfa moderna e segue le avventure del panneggio che progressivamente scende dai corpi delle ninfe sino a cadere a terra, mostrandole nude o seminude, distese sui panni, come nei quadri di Tiziano e Poussin, negli amplessi libertini di Boucher e Watteau, fino ad arrivare ai nudi pomografici di Courbet e Rodin. L'autore legge questa caduta del velo, o panno, come un movimento insieme sensuale e mortifero che termina nello scarto e nell'informe. Il punto d'avvio di quest'affascinante lettura dell'arte occidentale è in un marmo custodito nella chiesa di Santa Cecilia in Trastevere, a Roma, che raffigura la martire cristiana distesa a terra, su un fianco, con il capo ricoperto da un velo e il corpo trasformato in un unico grande sudario. Secondo la leggenda. Cecilia, con il capo mozzato, rimane agonizzante per tre giorni, e in questa posa è ritratta dallo scultore barocco. Didi-Huberman ritrova le fonti di questa postura nell'arte precedente, scandagliando il mondo della rappresentazione dei corpi prostrati, e conclude definendo la statua «sensualmente leggera», mentre il panneggio in cui è avvolta Cecilia raccoglie «tutti i disordini del desiderio». E' il (pathos tessurale» che l'autore ritrova in un'altra statua ben conosciuta dal turismo curioso, Il Cristo velato di Giuseppe Sammartino, del 1753, custodita nella wunderkammer della Cappella Sansevero a Napoli. Poi, con un gesto secco, degno di un film, l'autore cambia di colpo scena e dagli interni delle chiese barocche e neoclassiche ci porta nelle strade di Parigi durante l'Ottocento, la Parigi cantata da Baudelaire, descritta da Zola e letta da Walter Benjamin nei suoi frammenti sulla capitale del XX secolo. Egli vuole farci scoprire le tracce della Ninfa danzante dello storico tedesco in alcune immagini fotografiche dedicate agli strac- ci intrisi d'acqua, che ancora oggi si vedono vicino ai marciapiedi parigini. E' un passaggio ardito, ma che ha anche una sua evidenza: la veste svolazzante della Ninfa con il passare dei secoli si è degradata sino a divenire abito smesso e straccio; rifiuto e oggetto da riciclare. Ecco le fotografìe che il giovane artista americano alla moda, Steve McQueen, ha esposto nei musei più importanti. Sono le immagini dei barrage, i mucchi di stoffa, gli avanzi di moquette o di vestiti logori, che gli "stradini di Parigi dispongono nei canali di scolo, addossati ai marciapiedi, per indirizzare i rigagnoli verso i tombini della fogna". Oggetti di una curiosa "archeologia della strada", questi resti hanno attirato l'attenzione anche d'altri arti- sti prima di McQueen, da Denise Colomb nel 1989, ad Alain Fleisher negli Anni Sessanta, per arrivare a Laszló Moholy-Nagy, a metà degli Anni Venti, e a Eugène Atget nel 1911. Sono tutti passaggi di un personale ma convincente "album della memoria", il suo Mnemosyne, che Didi-Huberman realizza attraverso rapidi accostamenti, facendo scoccare scintille che aprono di colpo spazi inattesi là dove il criterio di lettura della realtà sembrava dominato dal linguaggio coerente delle "forme maggiori", dei generi sedimentati, dalla pittura alla scultura, includendo le "ultime" arti: dalla fotografia al cinema e ai video, assurta.nel pantheon dell'arte occidentale quasi per necessità. In realtà, il nostro orizzonte contemporaneo è tutto dominato, per così dire, dalle "forme minori", dagli scarti e dalle deiezioni che formano, di fatto, il substrato della nostra epoca. Così davvero la Ninfa moderna, che occupa il posto della trionfante bellezza eterea e composta della Primavera botticelhana - Sebbene non così dehcata e dolce quale appare, come ha mostrato in un altro suo libro, aprire Venere (Einaudi), Didi-Huberman -, è oggi lo straccio intriso d'acqua che i fotografi della modernità, e postmodernità, ritraggono nelle loro istantanee. Per questo la domanda, che l'autore si pone a un certo punto del suo saggio appare decisiva: come si è arrivati a vedere in quella misera "cosa" ammucchiata contro i marciapiedi parigini non un cencio senza memoria, bensì un oggetto antropologico, dotato di qualità formah ed espressive? «Come si è arrivati scrive - a vedervi un vero panneggio della città, quasi la sua memoria vestita di stracci?». La risposta è molto interessante. Dice Didi-Huberman: le rinascite, le riprese o ripetizioni individuate da Warburg attraverso le sopravvivenze - ad esempio quelle degli antichi dèi che riappaiono nei quadri, di De Chirico, o nei film hollywoodiani - diventano sempre più impure. Le cose nella modernità e postmodernità - termine ambiguo, eppure utile per dare un nome al contemporaneo - sembrano avere una specifica vocazione alla decomposizione, alla polverizzazione, e nel loro progredire esse assumono uno stato intervallare, in cui sono ancora umane - ecco l'elemento antropomorfo che compare nel! arte, anche in quella cosiddetta posthuman - e uno già informe, ovvero privo di una forma determinata, quella classica o postclassica; ad esempio, da Manet a Pollock il processo di sviluppo dell'informe è decisivo. Ninfa moderna è tuttavia un libro che si colloca al di là anche dei due paradigmi individuati da Warburg e da Benjamin. Il primo, nonostante tutto, cercava di ricondurre l'arte ancora alle sue scaturigini classiche, greche, provando a tracciare un'antropologia delle forme e delle passioni che collèga i moderni agli antichi greci, mentre Benjamin, filosofo immerso nella crisi del XX secolo, traccia una genealogia della decomposizione avanzata, della patologia e della depressione delle forme moderne, ponendo attenzione ai detriti della storia, alle sue rovine. Oggi però quel ciclo intellettuale e culturale (e forse anche pohtico) si è probabilmente chiuso. Così gli stracci dei marciapiedi parigini non sono solo le ninfa moderne, ma indicano ia fino dei rimpianto per la perdita d'aura. Nel contemporaneo questo problema - l'aura - non si pone più, forse neppure nel modo con cui guardiamo l'arte del passato, più influenzato, come ci fanno capire i video di Bill Viola, dalla televisione piuttosto che dalle belle fanciulle del BotticeUi. Didi-Huberman conclude che realizzare lavori, o addirittura capolavori storici, com'è del resto doveroso, con quei detriti della storia è il compito essenzialmente anacronistico degli artisti contemporanei. Vero. Tuttavia è probabile che siamo già oltre questo. L'arte contemporanea non è un' arte di macerie e di rifiuti; sceglie invece di lavorare con il pulviscolo delle immagini contemporanee, con la sua moltiplicazione e con la definitiva perita del punto di vista privilegiato. Per questo le opere d'arte di oggi raccolgono dentro di sé tutti gli sguardi degli spettatori e perciò stesso negano ciò che è stato per secoli il loro significato intimamente elitario. Le opere d'arte contemporanea hanno infatti l'imbarazzante qualità d'essere democratiche, ovvero di essere di tutti e per tutti. DA BOTTICELLI A COURBET, DAI MARMI DEL '600 A RODIN, SI ARRIVA AGLI ARTISTI CHE NEL '900 FOTOGRAFANO L'ARCHEOLOGIA DELLA STRADA, L'ANTROPOLOGIA MODERNA Un originale saggio di Didi - Huberman sulle tracce di Warburg e Benjamin, un percorso dal Rinascimento alle avanguardie del '900: il panneggio che cadendo rivelava il corpo nudo e il suo desiderio è ora mucchio di logore stoffe, rifiuto da riciclare, «la perdita dell'aura» Stefano Màderno, «Santa Cecilia», 1600: il panneggio in cui è avvolta Cecilia, scrive Didi-Huberman, raccoglie «tutti {disordini del desiderio» Germanie Krull, «Clochard» 1928 Georges Didi - Huberman Ninfa moderna trad. dì Aurelio Pino Il Saggiatore, pp. 158,2 19 SAGGIO

Luoghi citati: Eugène Atget, Napoli, Parigi, Roma