VILLEPEIN il diritto e il rovescio di Cesare Martinetti

VILLEPEIN il diritto e il rovescio PARIGI, L'EX MINISTRO DEGLI ESTERI RACCONTA LA POLITICA ANTIAMERICANA, MA DUE LIBRI DOCUMENTANO L'ALTRA FACCIA DELLA GRANDEUR VILLEPEIN il diritto e il rovescio Cesare Martinetti corrispondente da PARIGI CON Dominique Galouzeau de Villepin non si corre mai il rischio del banale. Il suo primo libro di politica era intitolato II grido della gargouille (i mostri di pietra che popolano facciata e fianchi di Notre Dame); le ottocento pagine della sua sorprendente autobiografia poetica pubblicata da Gallimard nel pieno della crisi irachena fu l'Elogio dei ladri di fuoco. Adesso che Jacques Chirac l'ha trasferito dal ministero degli Esteri a quello degli Interni, Villepin pubblica La requin et la mouette, lo squalo e il gabbiano (Editore Plon), per ricostruire i suoi due anni al Quai d'Orsay, da dove ha guidato l'opposizione della Francia alla guerra di George W. Bush. Il discorso all'Onu il 14 febbraio 2003 lo trasformò in un'icona mondiale. Questo suo ultimo libro lo conferma nel ruolo di cantore della pohtica della corte repubblicana di Jacques Chirac, portavessillo delpanache (pennacchio) e della grandeur. Un «delicato poeta» e insieme un «brutale capocommando», come dice di lui il suo presidente. Insomma il mito della Francia, nudo e crudo, della sua missione universale. Dominique de Villepin - l'ha detto una settimana fa in tv parlando sul suo libro - crede che in questo mondo dominato dall'«unilateralismo americano», la Francia abbia un «messaggio di speranza» unico e intramontabile: «Solo noi possiamo dire certe cose». Dire sì, ma fare? La coincidenza di quella che a Parigi si chiama la «rentrée htteraire» (un migliaio di libri nuovi in libreria) fa sì che insieme a quello di Villepin siano usciti almeno due altri libri che danno il rovescio della medaglia francese. Uno sui rapporti tra la Francia e i taleban (Quand la France préférait les taliban, scritto dalla giornalista Frangoise Causse in memoria del comandante Massud, Editions de Paris). L'altro sulla molto imbarazzante «scuola francese» della «guerra sporca» e della tortura esportata in sud America dagh ufficiali reduci dalla battagha di Algeri (Marie Monique Robin, Escadrons de la mort, l'école frangaise, edizioni la Découverte). Ma cominciamo da Villepin che racconta i giorni della battagha all'Onu. Bisogna sapere che nella vulgata francese l'ex ministro degli Esteri è stato considerato il vero ispiratore della linea francese. Non è mai stato chiaro se Jacques Chirac sarebbe arrivato da solo all'uso dell'arma fatale, il diritto di veto. Di sicuro Villepin l'ha brandita molto presto, imponendo una piega decisamente antiamericana al dibattito nel Consiglio di Sicurezza. Scrive Villepin: «La Francia come membro permanente non poteva eludere la questione dell'eventuale uso del suo diritto di veto... Noi siamo stati condotti a confermare che eravamo pronti a prenderci le nostre responsabilità...questa posizione ci è stata vivamente rimproverata». Ma che peso ha davvero avuto l'ombra di quel veto che Villepin (e non Chirac) ha fatto presto planare condizionando il dibattito alle Nazioni Unite? In altre parole gli stati cosiddetti «indecisi» (sei su quindici) se non ci fosse stato l'alibi della minaccia di veto francese, non avrebbero finito per appoggiare gli americani rendendo così legittima la guerra? Dominique de Villepin non ri- sponde a questa domanda, ma ben sapendo che è la vera questione di quel passaggio storico la rovescia: «Gli Stati Uniti e i loro alleati manifestamente non avrebbero avuto la maggioranza, dunque la questione del veto non si pone nemmeno perché esso può essere usato solo quando esiste una maggioranza». Il fatto è che la maggioranza non si formò proprio perché si sapeva che la Francia avrebbe usato il veto. Acqua passata. Quel che conta è la situazione di oggi. E su questa il giudizio di Villepin è categorico: «Tout le monde va payer le prix», tutti pagheranno cara la decisione sbagliata degli Stati Uniti. Innanzitutto in termini di terrorismo: «Le guerre recenti sono state per le organizzazioni terroristiche occasione straordinarie: hanno loro aperto l'accesso agli armamenti, facilitato la formazione dei combattenti, dato giustificazioni ai loro obbiettivi». E' successo con la Bosnia, la Cecenia e l'Afghanistan. Sta succedendo con l'Iraq dov'è il caos, dov'è accaduto che i «liberatori», nel carcere di Abu Ghraib, si sono comportati come il vecchio tiranno torturatore: «Così una grande democrazia può arrivare a sbeffeggiare i valori che vuol difendere». La parabola irachena rammenta a Villepin la spedizione spagnola di Napoleone, «esempio rivelatore dei danni che può provocare lo spirito di conquista». Nel 1808, all'apogeo del suo potere, vittorioso a Austerlitz e léna, senza più rivali militari sul continente, Bonaparte «crede di poter tutto osare», vuole strangolare economicamente l'Inghilterra, prova a conquistare la Spagna, costringe Carlo IV ad abdicare a favore di suo fratello Giuseppe. «Fedele discepolo'dei Lumi - scrive Villepin - Napoleone crede che tutta la Spagna si solleverà nell'entusiasmo. Errore fatale...» Bonaparte riuscì in questo modo a discreditare ;li «ideali della Rivoluzione e a legittimità morale di nazione liberatrice». Nessuno, Villepin cita Robespierre, «ama i missionari armati». E questa sarà la fine dell'America di Bush, prevede Villepin perché la guerra preventiva contro l'Iraq è una «rottura nella storia del mondo». Tuttavia l'inchiesta di Fran^oise Causse dimostra che - nel caso dell'Afghanistan - la Francia ha male applicato i suoi ideali alla realtà, praticando nei confronti dei taleban quella politica di «neutralità attiva» che è un bel gioco di parole ma ha voluto dire un tacito appoggio a Pakistan e Kabul e ostilità verso un vero eroe dei nostri tempi, Ahmad Shah Massud, leader dell'Alleanza del nord, grande capo militare e pohtico, unico afghano ad aver firmato la carta per i diritti delle donne. Quando venne a Parigi pochi mesi prima di essere assassinato da Al Qaida, Massud non fu ricevuto né da Chirac ne da Jospin. Ma negli arsenali dei taleban sono state trovate batterie di missili «Milan» francesi nuovi. E che dire dell'incredibile inchiesta di Marie-Monique Robin dove si scopre che furono i francesi a insegnare ai golpisti argentini, brasiliani e cileni le tecniche della controguerriglia, i rapporti segreti tra il governo di Valéry Giscard d'Estaing con i dittatori Videla e Pinochet, l'offerta del ministro dell'Interno Poniatowski ai sudamericani di controllare gli esuli cileni e argentini a Parigi arrivata fino - in qualche caso - a segnalare i tentativi di rientro in patria, dove venivano arrestati e da dove risultano tuttora «desparecidos»? Un'inchiesta anticipata due anni fa in tv e che giornali e politici francesi hanno totalmente occultato. Dominique de Villepin, intanto non è più al Quai d'Orsay. Chirac lo ha sostituito col savoiardo Michel Bamier, meno scintillante e più adatto a ricucire con gli americani. Il nuovo ministro dell'Interno è ora quello che Le Monde chiama r«enigma Villepin», il «poeta capocommando» costretto a vivacchiare in un grigio governo di destra che per confermare la tradizione (non quella mitizzata da Villepin) s'è messo a trattare con terroristi e assassini di tutto il Medioriente per ottenere la libertà dei due giornalisti in ostaggio. Lo squalo e il gabbiano. Appunto. Dominique de Villepin, ex ministro degli Esteri e attuale ministro dell'Interno, in una fotografia di Alain Volut. La politica estera del suo paese è al centro di polemiche, dopo l'uscita di un libro delio stesso Villepin e di due testi di denuncia: sui rapporti coi talebani e sulla scuola di tortura