I colleghi di «Un ponte per» «Là si sentivano tranquille» di Andrea Di Robilant

I colleghi di «Un ponte per» «Là si sentivano tranquille» SGOMENTO ALL'ASSOCIAZIONE I colleghi di «Un ponte per» «Là si sentivano tranquille» Hanno avvisato loro le famiglie poi si sono riuniti fino a tarda sera Non ci sono solo italiani, ma inglesi, americani e anche molti francesi Andrea di Robilant ROMA Era un tranquillo pomerìggio di fine estate prima die il telefono squillasse ieri alle sedici nella sede di Un ponte per... al 132 di piazza Vittorio - quattro stanze al secondo piano di un vecchio edificio umbertino decorate senza tanti fronzoli, con qualche tappeto in terra, scaffali da riordinare, e sui muri scritte in arabo e poster contro la guerra. ((Erano quelli del nostro ufficio di Baghdad», racconterà pochi minuti più tardi Lello Rienzi, portavoce dall'associazione. «Ci hanno detto che una ventina di miliziani armati hanno fatto irruzione nella sede e avevano portato via le nostre colleghe Simona Torretta e Simona Pari, assieme a Kaad, l'ingegnere iracheno che lavora con noi. Lo abbiamo saputo eoa. Abbiamo provveduto noi ad informare le famiglie». E' una scena che purtroppo sta diventando sempre più familiare. Solo che questa volta, nella sede dell'associazione, lo sgo¬ mento tra i colleghi delle due Simone è accentuato dal fatto che i rapitori hanno colpito un gruppo di persone che, per Q lavoro umanitario svolto negli anni e la vicinanza alla popolazione, è diventato ormai come un pezzetto di Iraq in Italia. Simona Torretta e Simona Fari sono lontane un mondo da Agliana, Cupertino, Stefio e il povero Quattrocchi, che erano andati in Iraq a fare i vigilantes. E in fondo sono anche molto diverse da Enzo Baldoni, il giornalista fantasioso e spericolato ucciso dall'Esercito islamico alla fine di agosto. La Torretta parti volontaria in Iraq cinque anni fa ed è ancora lì. La Fari era andata a fare uno stage per completare un master in cooperazione e sviluppo. Doveva stare qualche mese, ma non è più partita. Non passa un quarto d'ora dalla telefonata che le agenzie battono la notizia e la piccola sede di Un ponte per... viene presa d'assedio dai giornalisti. Non ci sono solo italiani, ma inglesi, americani e anche molti fiancesi. Un corrispondente della tivù tedesca reclama attenzione perché sta per andare in onda il telegiornale. Rienzi fa del suo megho per dare qualche risposta nel pandemonio generale. E la prima domanda che viene spontanea, vista l'aria che tira a Baghdad, è come mai le due Simone fossero ancora IL In altre occasioni, durante i bombardamenti pesanti, si erano rifugiate temporaneamente ad Amman. Ma erano tornate da tempo in Iraq perché, incredibilmente, non si sentivano in perìcolo. «Ci sentivamo al telefono anche più volte al giorno», racconta Rienzi. «Le notizie che ci davano erano sempre tranquillizzanti». Le due Simone e i loro colleghi di Un ponte per Baghdad sono in Iraq per portare acqua a Faliuja e medicinali a Najaf. Lavorano per la ricostruzione della biblioteca a Baghdad- Hanno messo in piedi un programma multimediale per le scuole. E quest'estate proprio le due ragazze rapite hanno creato un camp estivo per tenere i bambini iracheni lontani il più possibile dalle strade pericolose della capitale. L'Iraq è diventato la loro seconda casa. E non solo per motivi umanitari Dietro l'attività di Un ponte per... c'è una forte militanza politica. L'associazione creata da Fabio Alberti, che tutt'oggi ne è la guida carismatica, nacque negli ambienti di Democrazia proletaria nel 1991, dopo i bombardamenti alleati della prima Guerra del Golfo. E già all'epoca denunciò la guerra contro Saddam Hussein in difesa della popolazione civile. Adesso, dopo tredici anni di attività in Iraq, lo scopo sociale dell'associazione rimane, secondo un testo fatto circolare ieri nella sede di piazza Vittorio, (di contrasto della dominazione dei Paesi del nord sul sud del mondo». Gh interventi di soldarìetà devono rimanere «indivisibili dall'impegno pohti- co per incidere sulle cause dehe guerre e la costruzione di legami tra la società italiana e le società dei paesi in cui opera». Per intendersi, Un ponte per... non è la Croce Rossa. Due ore dopo la telefonata da Baghdad, Alberti, Rienzi e i loro collaboratori mandano via i giornalisti e si chiudono in una lunga riunione, promettendo di ripresentarsi ai media più tardi. Alla spicciolata, altri esponenti di Un ponte per... si fanno strada tra la folla di reporter e cameraman e salgono le scale fino al secondo piano. Con loro arrivano anche, numerosi, esponenti della comunità irachena in Italia che hanno legami con l'associazione. La riunione a porte chiuse si protrae fino a tanii. Rienzi non ricompare. In compenso, quasi a sottolineare che nel rapire Simona Pari e Sunona Torretta i sequestratori hanno colpito le persone che più sono vicine all'Iraq, un esponente della comunità irachena, Adeb Ah, è sceso alle otto di sera in una piazza Vittorio ormai rumorosa e trafficata. E rivolto ai rapitori, ha letto: «Vi supplichiamo a nome di Dio misericordioso e compassionevole, a nome della nostra povera e disperata gente, di non far loro del male. Recedete da ogni intenzione malevola e restituite le due Simone vive e sane alla loro gente, che sono i bambini dell'Iraq». li PI esponente della comunità irachena «Restituite le due Simone ai bambini che curavano» L'organizzazione ha portato acqua a Faliuja e medicinali a Najaf Proprio le due ragazze rapite hanno creato un campo estivo pertenerei più piccoli lontano dalle strade