SIMONA & SIMONA combattenti per la pace di Carla Reschia

SIMONA & SIMONA combattenti per la pace LE RAGAZZE Due persone diverse accomunate dalla passione e dall'impegno, curiose del mondo e della vita Da tempo avevano deciso che stare a guardare non basta e che occorre sempre mettersi in gioco SIMONA & SIMONA combattenti per la pace Carla Reschia UN anno fa, a maggio, a guerra appena finita, avevo incontrato Simona Torretta a Baghdad. Il suo ventottesimo compleanno l'aveva festeggiato li, nel Paese che ormai sentiva un po' suo, nella villetta che fa da casa e da ufficio nel quartiere di Hay-al-wahda, dove ieri è stata incomprensibilmente rapita. Niente torte né brindisi, solo qualche scatoletta e un po'di frutta: l'unico cibo possibile con la luce elettrica a intermittenza e il sistema idrico distrutto. Ma Simona, romana, laureanda in antropologia (tesi sull'Iraq, ovviamente), non avrebbe voluto trovarsi da nessuna altra parte. C'era rimasta anche sotto i bombardamenti a cercare testardamente, fra un posto di blocco e un coprifuoco, di proseguire la sua routine quotidiana fitta di colloqui, visite e sopralluoghi a ospedah, case, istituti e uffici. Stava studiando l'arabo, «per parlare direttamente con le persone». In Iraq, mi raccontava durante un' lungo viaggio in jeep alla volta di Basso: ra, dove in quei giorni «Un ponte per...» stava avviando un servizio di trasporto di acqua potabile per la popolazione dei vihaggi, c'era stata per la prima volta nel '94, al Festival di Babilonia, che ai tempi di Saddam riuniva in un fintissimo anfiteatro ricostruito di fianco alle rovine della città gruppi musicali da tutto l'Oriente ma anche da Paesi europei, Itaha compresa. «Un colpo di fulmine», lo definiva, raccontando come si fosse subito sentita fra amici, malgrado l'embargo che impoveriva la gente e il senso di esclusione di un Paese prigioniero di una dittatura e messo in quarantena dall'Occidente. Coslquando nel '96 aveva''«scppeftWTassociazipne Un pónte per.., nata nel 19Ì9,1, subito dopo la prima Guerra del Golfo per Mutare le vittime ^i^^.^-^gafji^o, pritì\a( e dell'embargo, poi ~ non aveva perso tempo: «Mi sono presentata e ho chiesto che cosa potevo fare. E' stato un impulso emotivo, mi sentivo in pena per la situazione degh iracheni, volevo aiutarli». s NeU'agosto'98 la prima ipissione sul campo: tre mesi, fino a novembre, per elaborare una valutazione sullo stato delle biblioteche delle Università irachene, impoverite dall'embargo e dalla conseguente mancanza di aggiornamento. Il progetto Assurbanipal, a cui è molto legata. «Nato per favorire scambi e donazioni di testi con gh atenei italiani e rompere l'isolamento forzato dei docenti iracheni, particolarmente grave e pericoloso in alcuni settori come, ad esempio, quello medico e scientifico». Una breve sosta in Itaha poi di nuovo a Baghdad, fino al febbraio '99, con tanto di ((battesimo del fuoco», quattro giorni di bombardamenti americani sulla città. Dopo ci sono state diverse altre missioni, tutte legate al progetto Assurbanipal: Simona ha accompagnato delegazioni delle università di Chieti e di Pavia e seguito con quest'ultima un'iniziativa per un accordo di cooperazione nei campi dell'oncologia e dell'ematologia. Un intenso lavoro di scambio che é proseguito nel tempo e aveva permesso ad alcuni medici iracheni di seguire corsi di perfezionamento in Itaha e di creare legami di cooperazione con gh atenei di Baghdad, Bassora e Mosul e quelli di Genova, Padova, Roma La Sapienza, Viterbo, Bologna e l'istituto universitario suor Orsola Benincasa di Napoli. Poi l'anno scorso il salto di quahtà, la decisione di passare in Iraq non più qualche mese all'anno ma un periodo continuativo, con un impegno a tutto campo per l'associazione. «Ero a Baghdad a gennaio, poi ci sono tornata a marzo e non mi sono più mossa. Durante la guerra era necessario garantire la presenza dell'associazione per gestire l'emergenza, assicurare la continuità dei progetti e dimostrare che non li avevamo abbandonati. Ora ci sono tutte le iniziative del dopoguerra da avviare e proseguire, centinaia di contatti da tenere e migliorare, problemi da risolvere. E' un'emergenza, adesso più che mai, perché é in gioco il futuro di questo Paese». Dell'Iraq le piaceva tutto. Dal finestrino della jeep indicava la vegetazione rigogliosa del Sud, i canali fitti di palme. «Guarda, non fanno pensare che qui davvero ci fosse il paradiso terrestre?». Intendeva restarci, e a lungo: «Sono stati aperti diversi campi d'intervento che desidero e devo seguire di persona, soprattutto sulle acque. Abbiamo iniziato una collaborazione con l'Unicef nella zona di Bassora. E poi c'è il programma sanitario a distanza avviato con la Mezzaluna rossa irachena, ci sono i gemellaggi fra le scuole e la cooperazione interuniversitaria. C'è la biblioteca della fotografia, il dispensario di Bassora per le malattie gastrointestinah, prezioso perché permette di salvare bambini che a volte rischiano la morte per una semphce diarrea». Tante iniziative a cui se ne sono aggiunte via via altre. Diceva Simona: «Credo che questa esperienza prima o poi si chiuderà e mi piacerebbe in futuro occuparmi anche di altri Paesi, ma credo e spero che non cesseranno mai i miei legami con l'Iraq. E'stato fondamentale nella mia formazione e sento di avere un debito nei confronti dei suoi abitanti. In loro ho ritrovato una serie di valori forti, preziosi: dignità, capacità di reagire, lealtà, amicizia. E la forza: hanno resistito a un lunghissimo embargo, sono sopravvissuti al regime e ora riusciranno, spero, a superare anche questo periodo di occupazione e di caos. Hanno una grande coscienza del contributo portato dalla loro civiltà al mondo e sapranno ritrovare il posto che gh spetta». Infine la domanda, banale ma inevitabile. Rimpianti per una vita ((normale»? ((Alla lunga ci si può sentire molto soh, anche se è un lavoro che mette a contatto con tanta gente. E poi, certo, ci sono i rischi. Durante i bombardamenti ho avuto paura, all'inizio. Poi scattano dei meccanismi, diventi fatalista. Quando cadevano le bombe i muezzin si mettevano a chiamare i fedeh alla preghiera. E tutti, anche i meno religiosi, obbedivano...» Simona Torretta Andrea Rossini LE storie capitano solo a chi sa raccontarle». Simona Pari, la giovane riminese rapita in Iraq, cita spesso Paul Auster a chi le chiede la ragione del suo spingersi in luoghi lontani e pericolosi, ma la sua vocazione da cronista colta e curiosa è stata da tempo sostituita dal senso di responsabilità nei confronti delle persone che ha conosciuto lavorando nel campo dei progetti umanitari all'estero e soprattutto dei bambini per cui da mesi lavora nell'inferno dell'Iraq, in una casa-ufficio di Baghdad, sede dell'organizzazione non governativa «Un ponte per...» a due passi dall'Hotel Palestine. Qui, dove ieri è stata sequestrata, il 6 giugno scorso ha festeggiato con i colleghi i suoi 29 anni. Giornalista pubblicista dal '97, cominciò scrivendo per il Corriere di Rimini e collabora varie testate anche nazionali tra cui L'unità e l'emittente «Radio 24-11 Sole240re», Simona le storie è andata a cercarsele fin dal 2001 nei Balcani, ma ha trovato ben altro da fare che scrivere. «Devo finire un progetto», ha detto al padre che cercava di dissuaderla prima di partire per l'Iraq. E l'impegno umanitario ha preso il sopravvento nella ragazza che non faceva mistero delle sue idee pacifiste e contrarie all'intervento in Iraq, come dimostrano le foto spedite alla famiglia: lei sorridente in mezzo ai duecento bambini della scuola di Jameela - il quartiere di Baghdad a due passi da Sadr City rimessa in piedi grazie f ai suoi sforzi nell'ambito del progetto Saif Hulu-Estate felice.di, Ciri è coordi-1 natrice e responsabile. «Non c'è niente di più bello del sorriso di quei bambini che hanno sofferto così tanto», ha raccontato in uno dei più recenti colloqui con la madre che la sentiva due volte alla settimana. «Sì, mi piacerebbe parlare del lavoro che stiamo facendo con i bambini, magari nei prossimi giorni», confessava, invece via e-mail a un collega. Diplomata al liceo linguistico, laureata in Filosofia all'Università di Bologna, dopo un'esperienza professionale come portavoce per l'allora sottosegretario Marco Minniti ha trascorso quasi un intero anno come volontaria per portare sollievo alle popolazioni di Kosovo, Albania e Montenegro ha svolto, nel 2002 ha lavorato per conto dell'organizzazione umanitaria Save the children: nell'Afghanistan del dopo guerra, a Kabul, e nei campi profughi del nord del Pakistan a occuparsi con donne e bambini di strada. La prima sua esperienza di emergenza, una svolta. A Roma ha frequentato un master in Cooperazione per lo sviluppo che prevedeva altri stage all'estero. Davanti a una «rosa» di offerte ha scelto l'Iraq «perché - diceva - è un paese di fortissima transizione, enormi potenzialità, che vanno sostenute». Tradotto: dava speranza a un popolo che più conosceva più amava come dimostrano le sue sporadiche corrispondenze, ma più ancora le conversazioni con familiari e amici. «E' gente fantastica: persone vitali, piene di idee che si sentono di appartenere alla culla della civiltà». Il rispetto di Simona per le tradizioni islamiche è assoluto: nella scelta dei giochi da portare in dono ai «suoi»" bambini ha evitato le bambole, giudicate troppo occidentali e per un anno, lei che parla correntemente inglese, ha studiato la lingua araba. «Almeno quando faccio la spesa mi faccio capire». Perfino il cibo iracheno, ha raccontato più volte di apprezzare: melone bianco, un particolare panino imbottito di carne, a forma di limone, riso con melanzane e peperoni, salsa di ceci. Piena.di vita e determinata ha allacciato nel tempo, dieci mesi prima e poi dopo una pausa di qualche settimana a Rimini altri tre mesi adesso, amicizie a Baghdad frequentando artisti locali e responsabili di comunità. Riaperta la scuola, aveva in mente di occuparsi della Biblioteca nazionale dell'Iraq dopo che per settimane, ogni venerdì, andava a spulciare il mercatino nella città vecchia in cerca di volumi rari. Leggere, scrivere. Una sola passione. In una delle ultime e-mail spedite da Baghdad racconta che stava raccogliendo materiale per documentare le violenze sulle don-, ne a Baghdad. Il modello a cui Simona si è sempre ispirata è la madre, Donatella Rossi, medico legale di 55 anni, con la quale è cresciuta assieme al fratello più piccolo. Marco. «Lei mi ha insegnato ad avere coraggio». All'inizio cercava le storie, ha trovato il sorriso dei bambini. «Lo faccio - era un'altra delle sue risposte perché sono felice». Al sindaco di Rimini, in visita nell'abitazione della famiglia della ragaza rapita, la madre di Simona ha rivelato la sua maggiore preoccupazione: «Il fatto che Simona è una donna...». Fuori di casa, sul portone, il padre Luciano rammenta: «Simona è in Iraq, convintissima e determinata, solo per aiutare i bambini. Sono fiducioso, mia figlia ha carattere e lo ha già dimostrato in altre occasioni». Simona Pari