I liberali congelati nel POLO di Pierluigi Battista

I liberali congelati nel POLODIECI ANNI DOPO, GLI INTELLETTUALI CHE SI ERANO RADUNATI INTORNO A BERLUSCONI SONO UNA PATTUGLIA ASSEDIATA, CONDANNATA AL MINORITARISMO i inchiesta Pierluigi Battista y\T EDI quello lì?», disse somio" V ne Lucio Colletti sprofondato dentro la nuvola di fumo della sua sigaretta, sui divani del Transatlantico. Il «quello lì» indicato da Colletti era Domenico Fisichella, apprezzato studioso di sistemi politici, indagatore del fenomeno totalitario, professore destinato a illuminare la destra ex missina lungo l'accidentato percorso destinato ad approdare ai lidi del post-fascismo: «Quello lì è molto più reazionario di De Maistre e, se fosse per lui, l'Ancien Regime verrebbe ripristinato con decreto regio»,,. ;, v, None vero, naturalmente: Fisichella non era e non'è affatto come Colletti lo dipingeva col suo consueto, vulcanico sarcasmo. Ma era esattamente ciò che Colletti pensava della destra italiana di cui pure Fisichella è la versione più colta e compassata. E dietro quelle sue parole sferzanti si riconosceva la stesso spirito missionario in partibus infidelium che alcuni intellettuali liberali schierati con il centrodestra, Marcello Pera e lo stesso Colletti, Antonio Martino e Piero Melograni, Giulio Tremonti e Giuliano Urbani e ancora altri, portarono in dote allo schieramento che avevano scelto: tentare di «civilizzare» una destra fragile, avventurosa e raccogliticcia, seminare il verbo liberale e liberista in un Paese che tra i due Einaudi, Luigi e Giulio, optava sempre per il secondo dimenticando il primo, riscoprire negli armi incandescenti in cui ancora si credeva alle magnifiche sortì e progressive della Seconda Repubblica la lezione di don Sturzo e quella di Karl Raimund Popper. La sinistra altezzosa, psicologicamente addestrata nella pretesa di esercitare un controllo monopolistico sulle cose della cultura, liquidò quel drappello di intellettuali come la foglia di fico utile a coprire la rozzezza incolta di imo schieramento dominato da pluto¬ crati analfabeti e venditori di pubblicità. Loro, gli intellettuali liberali impegnati con il centrodestra, invece ci credevano (ammesso, ovviamente, che Colletti potesse credere in qualcosa). Credevano che lì «meno Stato, più mercato» potesse diventare ima bandiera da impugnare con una certa convinzione, che si potesse fare come Reagan e la Thatcher, che la rivolta fiscale si potesse declinare in un progetto liberista, liberale, libertario, più attento agli individui, più sensibile ai valori dell'Occidente e del libero mercato, più garantista, meno statalista, meno dirigista, meno assistenzialista, più tollerante, più generoso con i diritti dei singoli e più severo con le pretese dei collettivi e delle corporazioni. Ci credevano. Ma forse la missione è fallita. La grande occasione è svanita. E i liberali e i liberisti si ritrovano, dopo dieci anni e passa, ancora una pattuglia assediata, rinchiusa nelle proprie nicchie, condannata a un destino di minoritarismo. Se ne è andato Giulio Tremonti, e fanno più male di una (riuscita) congiura di palazzo le parole risentite con cui ha abbandonato il suo posto di ministro: «Volevo abbassare le tasse e non me l'hanno lasciato fare». Messaggio devastante. La riduzione fiscale è il cuore simboheo del liberismo berlusconiano, una questione di portafogli (ma i liberisti non sputano sui portafogli e non credono al valore degradante del denaro) però soprattutto una questione di dosi di libertà nei rapporti tra il singolo e lo Stato. Tremonti era il sacerdote del Graal anti-fìscale. Certo, aveva già corretto l'entusiasmo liberista con dosi massicce di «colbertismo» e pure con qualche ammiccamento alla retorica protezionistica contro il nuovo pericolo giallo. Ma era più potente la sua avversione allo «Stato criminogeno», più genuina la sua fedeltà alla battaglia contro il torchio fiscale. La sua uscita dal governo è una sconfitta culturale, prima ancora che politica e personale. Oppure, si leggano le pagine di un brillante pamphlet di Antonio Martino, Semplicemente liberale, e si cerchino, se non le applicazioni, quantomeno l'atmosfera morale, il carburante ideologico del manifesto martiniano nell'immagine complessiva che l'attuale maggioranza sta dando di sé. Poco o nulla, se non lontananza, diffidenza, freddezza. Simile al torpore rassegnato (fa eccezione, forse, qualche infuocato articolo di Renato Brunetta o di Alberto Mingardi o di Oscar Giannino, cui il Foglio offre una tribuna di resistenza contro i rigurgiti neostatalisti) con il quale i teorici del fisco ridotto e dello Stato minimo hanno risposto all'«elogio delle tasse» tessuto da Tommaso Padoa Schioppa, uno dei protagonisti più illustri dell'establishment euroentusiasta. Una catastrofe culturale, o almeno un segno di riflusso, simbolicamente sancito dalla scomparsa di Ronald Rea¬ gan, emblema del liberismo trionfante. «Semplicemente liberale», come dice Martino. Ma la nuova ondata culturale di tipo neo-concertativo è stata bollata dal Foglio di Giuliano Ferrara come il clima di un moderno Congresso di Vienna destinato a seppellire nella palude della restaurazione culturale le gesta napoleoniche di chi vagheggiava per l'Italia la «rivoluzione liberale». Piero Ostellino è stato lasciato solo nella battaglia di denuncia del carattere illiberale dell'ispirazione culturale della nostra Costituzione: fino a poco tempo fa lo avrebbero spalleggiato legioni di liberali e pure di «revisionisti» non prigionieri del politically correct. Marcello Pera invita a riconsiderare le ragioni fondanti dell'Occidente mentre infuria l'offensiva fondamentahsta che dell'Occidente vorrebbe far tabula rasa, dalle libertà civili alla libertà delle donne, ma viene dipinto come una specie di dottor Stranamore convertito ai deliri della «guerra di civiltà», un nuovo seguace di Oriana Fallaci, i cui libri vendono milioni di copie ma le cui recensioni grondano solo critica e dispetto. Pera dice che la difesa del liberalismo occidentale implica la difesa delle sue radici giudaicocristiane. Ma la destra italiana, anziché convertirsi al liberalismo, sembra quasi lasciarsi fagocitare dall'antiamericanismo antiliberale e sui banconi delle librerie sono più visibili le tirate contro l'Occidente di Franco Cardini, di Massimo Fini, di Marco Tarchi che non l'americanismo di Massimo Teodori. Gore Vidal sembra piacere a destra più delle analisi di Bernard Lewis. Una seria rivista di destra come Palomar di Daniela Coli mette sotto processo il fondamentalismo dell'« esportazione della democrazia», a darle manforte un intellettuale che al centrodestra non dovrebbe pregiudizialmente dispiacere come Sergio Romano. Un intellettuale di destra irriverente e irregolare come Pietrangelo Buttafuoco scrive che le considerazioni di Pera hanno lo stesso «effetto della dolce Euchessina». Con i giornali della destra. Libero di Feltri, Il Giornale di Belpietro, L'Indipendente di Guerri che nel frattempo si esibiscono in spettacolari lotte intestine. «Semplicemente liberale». Mentre in Italia si incendia la polemica sugli strascichi dell'« egemonia culturale della sinistra», un giornale come il Foglio compie la gita a Chiasso tanti anni fa invocata da Alberto Arbasino e chiama a raccolta una specie di intemazionale degli intellettuali liberali, tutt'altro che egemoni in Italia. Sulle sue pagine compaiono gli scrìtti di André Glucksmann, di Alain Finkielkraut, di Marc Fumaroli, dei liberali di sinistra inglesi favorevoli alla guerra anti-fondamentalista, da Paul Berman a Christopher Hitchens, di Robert Kagan, dei «neo-con» americani, i Kristol, i Podhoretz, i Ledeen ma anche il liberal Andrew Sullivan. Ma è come se giocasse un'ultima battaglia difensiva, mentre la sensibilità cu.l.tui"dle diffusa, aproposito dei rapportò tra l'Occidente e i suoi «nemici», sembra molto più plasmata dai blob di Michael Moore che dagli accesi editoriali del neo-com Weekly Standard o dei saggi su Commentary. Perché, in fondo, un'analogia c'è tra i neo-con americani e gli inteUettuah liberali italiani che hanno tentato inutilmente di convertire il centro-destra: entrambi vengono in maggioranza (non certo Martino o Urbani) dalla sinistra intellettuale («un neo-conservatore è un liberal che ha scoperto la realtà», si dice in America») ed entrambi hanno tentato di influenzare con le loro teorie la politica di chi è al governo. In America il tentativo è in parte riuscito. In Italia è faUito. E se è vero, come ha scritto Emesto Galli della Loggia, che in Italia l'egemonia culturale della sinistra si è accanita «sulle grandi voci della riflessione storico-politica del Novecento sgradite al Pei, da Aron alla Arendt, a Orwell, a Berlin, a Grossmau, a Solzenicyn», oggi quelle voci non sembrano squillare nell'universo che fa capo al centro-destra. Forse la destra liberale ha davvero perduto la sua grande occasione. Anche se quella post-fascista, come si vedrà, si sente ancora peggio. Molto peggio. [1. Continua] Assertori del «meno Stato, più mercato», credevano che si potesse fare come Reagan e la Thatcher, che la rivolta fiscale potesse sfociare in un progetto più attento agli individui, più sensibile ai valori dell'Occidente, più garantista, meno assistenzialista, più tollerante Tremonti se n'è andato dal governo: «Volevo abbassare le tasse e non me l'hanno lasciato fare». Pera invita a difendere le radici giudaico-cristiane ma nel suo schieramento sembra prevalere l'antiamericanismo E le idee di Martino hanno raccolto soltanto diffidenza e freddezza i

Luoghi citati: America, Italia, Vienna