C'è un cuore semplice che vende sari alle madame shining di Alessandro Monti

C'è un cuore semplice che vende sari alle madame shining C'è un cuore semplice che vende sari alle madame shining Alessandro Monti M AI andare in India con una compagna di viaggio, se non si vogliono trascorrere ore nei negozi di sari, accovacciati attomo a un lenzuolo, le gambe morse da crampi, mentre i commessi sciorinano cascate di tessuto e tu inganni l'attesa con una Coca Cola autoctona offerta dalla ditta. Tuttavia, a giudicare dal bel romanzo II negozio di sari deb' esordiente Rupa Bajwa, non solo gb accompagnatori occidentali - di norma gli uomini indiani non mettono piede in tali negozi - si sentono in prigione, ma anche i commessi non se la spassano, esposti come sono aba fredda e capricciosa alterigia delle madame «shining» della nuova borghesia indiana «urbanite». Protagonista del romanzo è il commesso Ramchand, un «cuore sempbce» alla Flaubert orfano sobtario che per emanciparsi pensa d'imparare l'inglese, la lingua esclusiva parlata dalle sue facoltose clienti, compitando e memorizzando tutte le parole del dizionario, con patetica bulimia degna deba coppia Bouvard-Pécuchet. Lungi dall' essere solo meccanica, tale ingenua conoscenza lessicale innesta un processo di comprensione della realtà cinica e brutale circostante. Non di rado gli induisti si sentono in dovere di illustrare, a noi occidentali, l'inferiorità della nostra cultura, tacciata d'indifferenza e di egoismo per esempio verso gli anziani, rispetto al senso di dovere instibato dabo «Hindutuv», ossia il modo di essere induisti. Ebbene, sarei curioso di vedere come si conciba tanta visione elogiativa con il quadro deprimente tracciato nel romanzo e confermato da molteplici fonti. Abbiamo quindi zu che truffano l'orfano dei propri averi, spocchiose signore ò trónfie accademiche che considerano la lingua hindi disgustosa e ritengono «invisibib» tutti coloro che non appartengono aba loro elevata classe sociale. Funzionari pubblici che sguazzano nella corruzione, pobziotti che violentano o brutabzzano le donne del popolo, industriali che fanno bruciare viva con una spedizione punitiva in piena città la moglie «molesta» di un collega di Ramchand. Ciò avviene nella più «grande democrazia del mondo», dove l'elite vive in quello che un critico indiano ha febcemente definito «l'esilio deba mente», ovvero nel disprezzo e nel distacco rispetto alle masse. A tale proposito, è strepitosa l'invenzione per cui la giovane ricca si «emancipa» dal ruolo di sposa oziosa scrivendo un romanzo esotico e pittoresco, che trasforma Ramchand in un Bertoldo rustico alla Bollywood. Per Fanon, il padrone coloniale è scrutato di continuo dall'occhio invidioso del colonizzato: qui la prospettiva si capovolge, in quanto è la borghesia egemone post-coloniale che si arroga il diritto esclusivo di visione, bruciando chi osa osservarla con sguardo critico: è la «timeless India» delle caste che trionfa. Di tagbo ben diverso, e tutto sommato deludente, sono i racconti. Il satiro della sotterranea, di Anita Nair, giovane scrittrice del Kerala. Dopo due romanzi e un'interessante rac- colta di poesie la scrittrice ha voluto esercitarsi in un'esangue ricerca di stile e di temi, tagliando le radici con la propria cultura regionale, che faceva da sfondo concreto a una narrativa d'introspezione psicologica e di ricordi d'ambiente rurale o urbano del Sud, assai diversa e lontana da certi esotismi di maniera. Nei racconti prevale invece un modernismo tutto di superficie, un'atmosfera che si vorrebbe magica e che è invece sfuocata e vaga, non ravvivata da certe notazioni «fisiologiche» che risultano ingenue. Parlerei di un sottoprodotto stucchevole del cosiddetto realismo magico, che però qui perde ogni connotazione di soggiacente mondo reale, per ridursi a presunte e pretenziose eleganze stibstiche. Non è che oggi «un discorso sugli alberi», come diceva Brecht, sia necessariamente un delitto, però non si può nemmeno correre dietro alle ombre, né rappresentare un mondo senza corposità. Un incidente di percorso, dunque, messo in ulteriore rilievo dal giudizio di copertina sin troppo enfatico e anche fuorviante. La Nair è per fi momento un'ottima scrittrice regionale, ancorata a una propria cultura che non rientra di certo nei canoni dell'India tradizionale e sanscritizzata. E' una felice sorpresa l'esordio di Rupa Bajwa, mentre deludono le storie di Anita Nair (un'atmosfera che si vorrebbe magica e che è invece sfocata) Rupa Bajwa Il negozio di sari Feltrinelli, pp. 238. 216 Anita Nair Il satiro della sotterranea Neri Pozza, pp. 167.214 ROMANZO E RACCONTI

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