Roddick, il divo con la sindrome Federer di Stefano Semeraro

Roddick, il divo con la sindrome Federer L'AMERICANO CERCA IL BIS DELL'ANNO SCÓRSO NEGLI US OPEN E SPERA DI ANNULLARE IL DIVARIO DALLO SVIZZERO N.1 DEL MONDO Roddick, il divo con la sindrome Federer Stefano Semeraro Et un uomo con una missione, e lo sa. Deve pompare vitamine ed energia dentro le arterie atrofizzate del tennis americano, umiliato, sbattuto e offeso dalla concorrenza degli europei, dei sudamericani. Persino dei cinesi. Ad Atene Mardy Fish, il suo scudiero, si è fatto stritolare addirittura da due cileni: medaglia d'argento, fra l'oro di Massu e il bronzo di Femandez, mentre due mandarine vincevano l'oro nel doppio femminile. Bravo, gli hanno detto a denti stretti al rientro in patria, e intendevano: vergogna. Roddick, il divo, il bello inseguito, con tanto di taglia, dalle assatanate pallanotiste australiane, si era sfarinato ancora prima, battuto proprio da Gonzalez. «Ero nervoso», si è scusato, invocando la sindrome da Giochi. Adesso ci sono gli Us Open, l'ultimo Slam della stagione, quello che riassume e lucida un armo intero. Qui il tennis ritorna a fare sul serio dopo il limbo olimpico. Qui c'è Federer, qui ci sono le memorie giganti di Connors, McEnroe, Sampras, ci sono le orme ancora luminose di Agassi. Qui devi saltare, Andy Roddick. Non che non lo sappia, il numero due del mondo, che l'anno scorso proprio sul cemento steso sopra gli antichi prati scintillanti (fìushing meadows) vinse il suo (per ora) unico, grande torneo, conquistando anche momentaneamente il numero 1 della classifica mondiale: «Ci sono cresciuto bene, dentro questa pelle - dice oggi -, Ma so che per essere au/altezza del ruolo, per diventare l'erede di quei grandi, e per rendere popolare il tennis negli Stati Uniti, devo essere sempre competitivo nei grandi tornei». Deve vincere, Andy. Non ha grandi alternative. Deve gonfiare un po' di thrilling dentro una rivalità - quella con lo svizzero fatato Federer - che per ora sta molto nelle parole, nelle attese, nelle speranze. Meno, molto meno nei numeri. Dal 2001 ad oggi i due si sono incontrati sette volte: Roger ha vinto sei volto, Andy una sola, in Canada, nel 2003. Troppo poco. Quest'anno, fra l'altro, Roger è già 2-0, avendo calpestato l'americano sia a Wimbledon sia a Toronto, poche settimane fa. «Sono le rivalità che fanno vivere lo sport», ammette anche Roddick. Secondo Murphy Jensen, ex-doppista folle degli anni ottanta, le rivalila vere sono quelle dure e crude. Maleducate, cattive: «Non Agassi e Sampras, che dopo aver giocato un torneo se ne tornavano a casa con il jet privato per giocare a golf. Ma McEnroe che chiamava comunista Lendl, e Lendl che gli rispondeva dandogli dell'idiota». Visione un po' selvaggia e retro, quella di Jensen, ma non priva di logica. Per ora Roddick ha fatto bene, benissimo, sul piano del marketing, dove con Federer se la batte alla pari, anzi, vince. E' vero, ha rifiutato di partecipare ad un «reality show», ma quella è roba per atleti finiti e finti vip. In compenso ha conquistato i media e i fans, cucendosi addosso una popolarità da rock star, guadagnandosi copertine illustri e comparsale nei talk show che contano, dal Late Show di Letterman al Saturday Nite Live. E' decisamente un all-american boy, ma non uno sprovveduto: apprezza Michael Muore, sa guardarsi attorno, leggere la realtà. E piace anche agli «executive» di New York. Ha contratti con marchi pesanti come Ree- bok, Babolat, Rolex e American Express. «Piace a uomini, donne e ragazzi, è un testimonial come ce ne sono pochi», spiegano i diavoletti del marketing. «Il suo braccio è pericoloso», recita lo slogan di una delle campagne a cui ha prestato il suo sorriso da James Dean della porta accanto. Ma per evitare di bruciarsi occorre anche vincere, oltre che apparire. Una curiosa espressione dell'americano Andy Roddick durante il match esibizione con Agassi di domenica a Flushing Meadows

Luoghi citati: Atene, Canada, New York, Stati Uniti