UZBEKA una fiaba cattiva

UZBEKA una fiaba cattiva E' UN CASO LETTERARIO INTERNAZIONALE IL ROMANZO DI UN'AMBULANTE SEMIANALFABETA CHE FA PENSARE AL MONDO DI GARCIA MARQUEZ UZBEKA una fiaba cattiva AnnaZafesova MOSCA Q UESTA storia è cominciata ^poco più di un anno fa, quando negli uffici della casa editrice pietroburghese Azbuka squillò il telefono. Una voce con vocali cantilenanti e consonanti morbidissime disse qualcosa che dal russo in italiano può venire reso più o meno come: «Io venire nella vostra bellissima città a danzare, e ho anche scritto libro, si intitola II grido dell'anima, voglio che voi pubblicarlo». Un' ora dopo l'aspirante scrittrice era in redazione, con il suo accento dolce da venditrice di uvetta e spezie per il riso e un quaderno A4 compilato da una calligrafia rotonda e incerta da elementari. Le prime righe dicevano; «Vi racconto di me per sfogarmi un po'. Penso che fimrete per leggere questa mia maledetta stona. Almeno ci spero.» I redattori di Azbuka leggevano perplessi, alzavano gli occhi su Uj^, doopa .picopla,» jfptpptidetta, là mtérrpgavanò e lei risponde-1 va sorridente che come mestiere tiene un banchetto al mercato e che il suo libro sta per uscire a San Francisco. Poi abbassavano di nuovo gli occhi su un testo dichiaratamente analfabeta e il verdetto era unanime: da pubblicare immediatamente. Ora Bibish, nome d'arte di Hadzharbibi Siddikova, una quarantenne uzbeka naturahzzata in Russia, è un caso letterario. Il suo libro è uscito con il titolo meno patetico di Danzatrice di Khiva, è stato recensito brillantemente e candidato al premio di BestseUer nazionale. E lei, da cenerentola ricompensata per il suo buon cuore, racconta nei talkshow, sempre sorridendo, che l'aveva scritto dopo che le era mancato il coraggio di suicidarsi. È una storia di orrori, quella di Bibish, raccontata come una favola orientale, una narrazione infinita, con divagazioni improvvise, intercalari, con un lessico della strada che fa sentire la voce della protagonista con il morbido accento asiatico. È una narratrice più che scrittrice, e racconta la storia della sua vita come un'interminabile fiaba cattiva. Nata in un piccolo villaggio uzbeko profonaamente religioso, dove le donne venivano vendute per 15 chili di grano e ripudiate se sterili, dove gli sposi si vedevano la prima volta al matrimonio ed era vietato ballare. Un medioevo sul quale il regime sovietico si è sovrapposto senza soppiantarlo, e Bibish racconta del nonno spedito per 10 anni in Siberia perchè era un mullah, dei tre fratellini morti bambini (nel 1978, in pieno socialismo «sviluppato»), della miseria da Africa, a dormire per terra tutti insieme tra le pulci e mangiare frutta marcia. Della schiavitù nei campi di cotone, dove donne e bambini si sfinivano per battere un nuovo record nella «competizione socialista» e si veniva picchiati sulle dita se non si raccogheva abbastanza. Non c'è tono di denuncia nella sua voce pacata, ma perfino divertimento quando narra del pezzo di carne che usò la prima notte di nozze per fingere una verginità che aveva perso a otto anni in uno stupro che per poco non l'aveva uccisa, o degli equivoci nel spiegarsi a gesti con i suoceri, ai quali, da brava nuora, per un anno non aveva il diritto di rivolgere la parola. È una narrazione a tratti quasi onirica, sbrindellata, dove entrano ed escono di scena all'improvviso personaggi da Macondo uzbeka come la moglie ripudiata del nonno che fino alla morte ha accudito la sua rivale zoppa, o gli zii che litigano per un libro dai poteri magici sulla tomba del padre, o la suocera russa con la sua battagha protofemminista nell'Asia patriarcale. Ma è soprattutto la storia di un sogno inseguito da unapiccola ragazza nata ai margini di un impero, il sogno di studiare (con la madre che le strappava i libri perchè «i libri non danno da mangiare»), di danzare (diventa ballerina lontano da casa per non svergognare la famiglia), di avere una vita normale. Bibish non racconta perchè ha lasciato la Turkmenia dove viveva dopo il matrimonio - «meglio non ricordarlo, quando ci penso voglio morire», - ma non ci vuole molto per immaginarsi le pulizie etniche nelle satrapie che sono diventate le ex repubbliche sovietiche dopo il crollo dellUrss. Il fascino della storia sgrammaticata e sconclusionata di Bibish sta proprio nella nota vibrante di autenticità di una donna come tante, una di quel popolo muto che vende la frutta, lava pavimenti e muore nei cantieri della Russia che promette salvezza. Anche adesso che è diventata una celebrità la scrittrice uzbeka viene trattata con una sor- e Bibish ta di imbarazzo, come se da una come lei nessuno si aspetterebbe sentimenti, aspirazioni, patimenti degni di un romanzo. Bibish è un «culo nero», un'asiatica, un'immigrata, e con il solito tono da paziente narratrice orientale racconta la sua ricerca di una casa, di un lavoro, di una scuola per i figli. Sentendosi rispondere dovunque: «Non voghamo non russi», fi freno ideologico deir«amicizia tra i popoli» è scomparso lasciando in libertà un razzismo diffuso, tollerato, diventato norma. Uno dei figli di Bibish è stato quasi strangolato dai ragazzini russi e supplica piangendo di tingergli i capelli di aiondo: «Mamma, perchè mi hai fatto nero?». Il suo banchetto al mercato viene bruciato dalle donne russe. I burocrati negano la «registrazione» senza la quale non si può lavorare e dicono esplicitamente ler quanto Biaish è cittadina russa - «quelli come voi bisogna mandarli in Siberia, con gli orsi». Un universo di miseria e umiliazione che per la prima volta acquista voce per raccontare quello che tutti sanno e nessuno vuole vedere. Colpisce più delle notizie di cronaca, di un tagiko sparato a sangue freddo da un poliziotto perchè non aveva pa( gato il biglietto della metrò, della bambina asiatica massacrata dai naziskin. «Un libro su tutti noi e per tutti noi, qualcosa che abolisce la letteratura e rende illegibili le trame inventate», è l'elogio di Alexandr Gavrilov, direttore della rivista Knizhnoe obozrenie. Il primo esempio di letteratura postimperiale sovietica, sul modello di quella nata dalle rovine dell'impero britannico, viene offerto da una venditrice al mercato, che con rassegnazione asiatica e umorismo europeo racconta la sua storia di oom in the Ussr, orfana di un impero che non rimpiange: «In Russia mi sento libera anche se ci sono difficoltà pure qui, ma cosa ci possiamo fare?». Più narratrice che scrittrice, Bibish racconta la sua vita in un villaggio asiatico della vecchia Urss come un'infinita e onirica favola orientale, intrisa di orrori L'epopea d'un piccolo borgo dove le donne venivano vendute per 15 chili di grano e ripudiate se sterili, gli sposi si vedevano la prima volta alle nozze ed era vietato ballare Un'immagine odierna della mitica Samarcanda, città dell'Uzbekistan non distante dal villaggio della Bibish La scrittrice Hadzharbibi Siddikova, in arte Bibish

Persone citate: Alexandr Gavrilov, Garcia Marquez, Hadzharbibi Siddikova