Laltra America grida a New York il suo no a Bush di Paolo Mastrolilli

Laltra America grida a New York il suo no a Bush IL CORTEO ALLA VIGILIA DELL'APERTURA DELLA CONVENTION REPUBBLICANA Laltra America grida a New York il suo no a Bush n duecentocinquantamila marciano chiedendo il ritiro delle truppe dall'Irac reportage Paolo Mastrolilli NEW YORK «Come chiedi a un soldato di essere l'ultimo a morire per una bugia?». La marcia lungo le strade di New York di William Hunt comincia così, sotto questo striscione. William è alto un paio di metri, sfoggia bicipiti da peso massimo, ha la testa rasata e la copre con un cappello mimetico. Per caso, gh chiediamo, lei ha servito in Iraq? «Sissignore. Corpo dei marines, battaglia di Nassiriya». Vuol dire che era lì quando liberarono la soldatessa Jessica Lynch? «Sissignore. Jessica ha fatto il suo dovere, ma le bugie che hanno raccontato sulla sua liberazione mi hanno disgustato. Sa, in quella battaglia io ho perso diciotto compagni, ragazzi che conoscevo come fratelli. Con tutto il rispetto, penso che i veri eroi di Nassiriya siano stati loro». E cosa ci fa qui, a marciare contro il presidente Bush? «Sono contro questa guerra. A marzo ho deciso di non rinnovare la ferma e ho lasciato i marines. Ci hanno mandati a morire per il petrolio, e credo sia ora di riportare a casa i ragazzi». Ma questa non doveva essere la protesta dei fricchettoni pacifisti? «Non lo so, signore. Io, per (pianto mi riguarda, penso di aver dimostrato che sono pronto a rischiare la vita per U mio Paese. Adesso ho fatto domanda al dipartimento di pohzia di New York, e spero che mi prendano con loro a difendere la giustizia in queste strade». La gente ha cominciato a radunarsi qui, all'incrocio tra la 22a Strada e la Settima Avenue, di prima mattina. E' l'appuntamento dato da United for Peace and Justice per la marcia di protesta più grande nella settimana della Convention repubblicana: 120 mila persone secondo la pohzia, 400 mila secondo gli organizzatori. L'obiettivo è salire dalla 22a Strada al Madison Square Garden, girare alla 34a, tornare lungo la Fifth Avenue verso Union Square, e poi magari violare la consegna del giudice che voleva proteggere l'erba di Central Park, andando lassù per un «picnic di protesta». All'incrocio c'è Mima Niles, ragazza visibilmente incinta. Sopra il pancione di otto mesi porta una maglietta con la scritta «Beat Bush», batti Bush . Ma non, ha, paura delle violenze? «Quah violenze? Siamo' venuti qui per manifestare pacificamente il nostro dissenso». Dissenso su cosa? «Personalmente mi disturbano molto l'opposizione di Bush all'aborto, una scelta che come vedete non ho fatto, e la minaccia dei repubblicani alle libertà civili». Sul palco improvvisato cominciano a salire i leader della marcia, per «gasare» i manifestanti. Il regista Michael Moore, per esempio, un eroe della protesta col suo documentario «Fahrenheit 9-11»; «La maggioranza di questo Paese - comincia - non ha mai votato per Bush e non vuole la guerra. Adesso la maggioranza è qui per dire: è ora di riavere l'America nelle nostre mani». La gente applaude, mentre il microfono passa ad Ève Ensler, famosa per il pezzo teatrale sùperfem.minis^ «The Vagina.Monolo-. gues». Questi monologhi dell'organo sessuale femminile erano piaciuti così tanto a Donna Hanover, ex moglie di Rudy Giuliani, che la sua decisione eh interpretarli sul palcoscenico off Broadway era stata mia delle ragioni per il divorzio dall'ex sindaco. «Hanno usato la libertà delle donne - grida Ève - come scusa per invadere l'Afghanistan e l'Iraq. Bene, adesso in Afghanistan sono oppresse come prima, mentre l'Iraq è un Paese più fondamentalista di quando c'era Saddam». Subito dopo tocca al reverendo nero Jesse Jackson: «Abbiamo perso la credibilità morale in Iraq e non riusciamo nemmeno ad aiutare la gente. Non abbiamo trovato le armvnon abbiamo trovato legami con al Qaeda, sono morti mille soldati, ma in compenso abbiaflao bisogno di .invocare l'aiuto di un ayatollah per fermare i combattimenti a Najaf». Verso mezzogiorno la marcia inizia a muoversi, ma il detective nero Walter Bumes non pare preoccupato: «Ho la faccia di uno impaurito? Questa è New York, ogni settimana abbiamo una manifestazione. Sono mobilitati 10 mila poliziotti, andrà tutto bene. Questa gente ha il diritto di esprimere la sua opinione». In cielo volano quattro elicotteri, che seguono passo passo la manifestazione, con poliziotti a piedi, in moto e a cavallo, schierati lungo tutto il percorso. In testa al corteo ci sono i veterani della Lincoln Brigade, che combatterono in Spagna contro Franco sotto gli occhi di Ernest Hemingway. Larry Syverson, invece, cammina sotto lo striscione di Military families speak ouU «Ho quattro figli, tutti sotto le armi. Due, Bryce e Branden, hanno servito in Iraq. Ora hanno ordinato a Bryce di tornarci. Non è uno che ha paura e non siamo una famiglia che fugge dal dovere. Però questa è una guerra sbagliata e deve finire». Vicino a lui marcia Raphael. Suo fratello, il sergente Sherwood Baker, è morto a Baghdad il 26 aprile scorso: «Sono gonfio di frustrazione, da qualche parte dovevo sfogarla». Davanti sfilano i veterani del Vietnam. Chuck Heyn era nella lOlst Airbome Division, le Aquile urlanti, il reparto d'elite dei paracadutisti: «Operazioni search and destroy: ci lasciavano con gli elicotteri sulle colline della zona demilitarizzata e andavamo a caccia di vietcong. Non ho ancora deciso se voterò per Kerry, ma di sicuro vogho la fine di questa guerra, perché l'abbiamo fatta per le ragioni sbagliate». Lo ascolta e annuisce Jaime Vazquez, che sventola una bandiera americana e mostra sul petto sei medaglie, tra cui una Purple Heart: «Ero a Khe Sanh con i marines, una delle battaglie più sanguinose. Non abbiamo imparato la lezione del Vietnam: allora andammo in guerra per una bugia e adesso lo abbiamo rifatto. Se non c'era il petrolio, e non volevamo aumentare la presenza militare nella regione, non ci saremmo mai mossi». E la storia delle medaglie discusse di Kerry? «Una vergogna. Qualunque sia la verità, Kerry è andato in Vietnam a rischiare la vita per il suo Paese. Chi lo attacca, Bush, si era imboscato». Quando il corteo arriva davanti al Madison Square Garden, Jesse Jackson lo blocca per gridare slogan contro i repubblicani. Spunta il cartello «Comunisti per Kerry», ma deve essere una provocazione. Qualcuno invece porta a spalla bare finte coperte dalla bandiera stelle e strisce, e si ferma un istante per pregare alla memoria dei caduti in Iraq. All'angolo con la 34a strada, dove la marcia deve voltare per tornare indietro, aspettano decine di poliziotti in assetto da guerriglia urbana, per paura che qualcuno forzi il blocco e vada verso l'erba vietata di Central Park. Ma la gente saluta, gira, e si avvia obbediente verso Union Square. La polizia ha fatto circa 100 arresti, ma, a parte una scaramuccia con alcuni anarchici, le violenze che secondo i democratici Bush si aspettava non sono avvenute. Stasera i veterani dell'Iraq si vedranno al Joe's Pub, per una «celebrazione di dissenso» col cantante Stephan Smith. Poi forse andranno a Central Park con la mimetica, per cucinare al «picnic del popolo». Non manca il reverendo Jesse Jackson: «Con questa guerra abbiamo perso la nostra credibilità morale. Non abbiamo trovato le armi proibite né i legami con Al Qaeda» William Hunt è stato coni marine a Nassiriya «Manifesto per dire che non bisogna più combattere per il petrolio» Il regista Michael Moore arringa la folla «La maggioranza della gente è qui perché vuole riprendersi il Paese» Mima Niles è incinta «Voglio protestare contro l'opposizione della destra all'aborto e il tentativo del governo di soffocare le libertà civili»