Dalì, tanto Kitsch da essere un maestro

Dalì, tanto Kitsch da essere un maestro A D R AL CENTRO REINA SOFIA UNA RASSEGNA SULL'ARTISTA CATALANO E LA CULTURA DI MASSA Dalì, tanto Kitsch da essere un maestro Marco Vallerà DROVATE a chiedere ad un solone della modernità, o anche ad un bravo studioso delle avanguardie, quando pensa che sia comparsa la prima bottiglietta di Coca Cola, in un quadro d'epoca. È inevitabile: vi risponderà Andy Warhol, al massimo Rauschenberg. E invece no, bisogna risalire quasi di vent'anni, al 1943 di Poesia d'America di Dali. Non è il sohto giochino, superfluo, delle precedenze. Ma è il nucleo di una mostra intelligentissima, che si chiama «Dali e la cultura di massa», e che ci fa capire, al di là del gusto, certo assai discutibile, della «pittura» stessa del folle di Spagna (pittura che, di fatti, qui è quasi in minore, per dare spazio a manifesti, grafiche, brogliacci, progetti di film: con Hitchcock, Disney, i fratelli Marx) come precocemente e genialmente Dali avesse capito quanto fosse importante far dialogare la pittura alta con gli oggetto vili del consumo popolare (e dunque per nulla vili) e dell'inconscio collettivo. Tanto precocemente, che non a caso la mostra si chiude su un incontro inevitabile, quello di Dali con Andy Warhol, all'hotel St. Regis di New York, 1964. Che, trovandosi di fronte un «doppio» tanto perturbante non sa che fare, si trova spiazzato e lo fotografa, rovesciandolo a testa in giù, come un Baselitz vivente, o megho: l'altra metà d'un sé tarocco. Dali è troppo maestro, per girarci intorno ironicamente. Bisogna neutralizzarlo, disarcionandolo: del resto lo ha preceduto da secoli con una sua factory variopinta, intessuta di travestiti e di capitani, è dominato da una donna-vampiro come Gala, altro che Ultraviolet, ha avuto le sue cosette con Garda Lorca, ha fatto i suoi film somma¬ mente trasgressivi con Bunuel, è diventato un uomo-immagine, inventando letteralmente la performance auto-pubblicitaria (non se ne ricorda mai nessuno) firma fogli in bianco per litografie anonime e redditizie, è avido di dollari, ha trasformato le sue case in regge deliranti, ha disegnato prodotti pubblicitari e scarpe-cappello e bocche da profumo Mae West per Elsa Schiapparelh, risponde alla domande con le domande, ha inventato (nel 1945!) una sua Jnterview, che si chiama DaMNews, invece che Daily News, e che parla solo di sé, invischiando Wagner e Picasso. Forse persino un po' più autoironico: certo, compro^ messo con il Kitsch. Ma perché quello che si perdona a Picabia non lo si può concedere a Dali? E' un quesito aperto (del resto tra i visitatori di Cadaques, tra Man Bay, Bataille e altri, c'è spesso Duchamp, suo grande estimatore). E la mostra collabora a farci capire che il suo rapporto camp con il poncif d'epoca è molto antico, almeno da quando incontra, 1930, l'icona popolare delIAngélus di Millet e la trasforma in un reperto archeologico, in un calamaio-cappello, in un'ossessione paranoica. Un universo in metamorfosi, da Ovidio moderno (e anti-moderno: che tradisce Le Corbusier per Gaudi). E quello che Aragon aveva intuito: una pittura che vuol passare per un collage. Ed una ricerca sperimentale, che si fa pubblicità: di sé. Un'anti-arte. Che non vuol soltanto essere polemica, ma anche popolare. Apoteosis de Nomerò di Salvator Dali, 1944-45 Dali. Cultura de masses. Madrid. Centro Reina Sofia. Sino al 31 agosto. Poi a San Pietroburgo

Luoghi citati: America, Madrid, New York, San Pietroburgo, Spagna