Lo Zorro della Mazzantini eremita da marciapiede di Osvaldo Guerrieri

Lo Zorro della Mazzantini eremita da marciapiede Lo Zorro della Mazzantini eremita da marciapiede Osvaldo Guerrieri s I chiama Zorro. Anzi lo ha chiamato Zorro Margaret Mazzantini nel monologo scritto sulla misura istrionica di suo marito Sergio Castellitto, che in effetti, un paio d'anni fa, lo ha portato su alcuni palcoscenici con un buon successo, replicandolo fino a quando il cinema non lo ha nuovamente inghiottito dentro la botola del suo illusionismo. All'apparenza, questo Zorro non ha niente di eroico. Non ha il mantello nero, né la mascherina. Non sa neppure che cosa sia una spada. Secondo la definizione che ne dà la Mazzantini, è un eremita da marciapiede. Vive in uno scenario metropolitano senza tetto né legge. Come accade ai tanti barboni che, un giorno, spegnendo un interruttore mentale, hanno divorziato dalle regole, dalle case, dai vincoli, anche lui veleggia senza bussola, dorme dove capita, magari sulla griglia della metropolitana che sfiata calore, mangia alla mensa dei poveri, e quando è necessario si scortica la pelle con la doccia bollente del Diurno, misurando la distanza tra sé e i Cormorani. I Cormorani sono gli altri, i cosiddetti «normali», quelli che si sono ingolfati nella ritualità mortale del consumismo e non sanno uscirne. Lui, no. Ha scoperto che può fare a meno quasi di tutto. Gli basta una bottiglia, un pasto ogni tanto, e andare. Ha anche scoperto la grandiosità del cielo. I Cormorani guardano in basso, lui guarda in alto. E' un falso innocente che non vuole staccarsi dalla collera, dalla memoria così piena di bizze e di dolcezze, e coltiva l'enfasi buffonesca di un hidalgo di serie B. Del resto si chiama Zorro. Si chiamava Zorro il cagnette di quand'era bambino; e si chiamava ancora Zorro il cane di Mario, il benzinaio che luì ha investito con la macchina e poi è morto, lasciandogli in eredità quel cane color piscio e il naufragio di tutta una vita fino a quel momento considerata normale, con il lavoro, i bignè della domenica, la moglie bella e un pochino isterica che poi lo tradisce con il «personal trainer» della palestra. E poiché tutto è crollato, e poiché lui stesso è imploso, via da tutto. Via la cravatta. E al posto della cravatta il guinzaglio di Zorro, per essere libero di andarsene col suo lutto, per uscire dal branco dei Cormorani, per sbraitare a piacere e traversare una strada a caso senza badare a chi ti viene addosso, magari benedicendo quel che un piccione ti lascia cadere sulla testa. Colpisce, nel testo della Mazzantini, la presenza di un sorriso segreto, spesso sarcastico, che sembra accompagnare il cammino svagato e vociante di Zorro. Lontana dal sociologismo e dal patetismo, la scrittrice sparge sul suo personaggio la cipria dorata di una teatralità che trascina con sé gli echi (letterari) dei «maudits» americani. Il suo Zorro sembra accodarsi ai drop out di Ginsberg e di Bukovski anche quando parla con Dio, ma badando al cambio continuo del registro, in modo che, secondo le leggi del teatro, venga fuori quella ondosità espressiva che mescola l'invettiva alla dolcezza, la malinconia al guizzo buffonesco. Una gran bravura, che sa trarre profitto anche dalle ingenuità. Margaret Mazzantini Zorro Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, pp. 66, 6 6,50 MONOLOGO

Persone citate: Ginsberg, Margaret Mazzantini, Mazzantini, Sergio Castellitto