La cultura e l'industria

La cultura e l'industria Quale Torino vogliamo? Un intervento di Alfieri La cultura e l'industria SONO andato a Manchester, su invito della Bbc Philharmonic, per la conclusione della stagione concertistica di Gianandrea Noseda che è il principal conductor di quell'orchestra ed è anche un direttore sempre più amato dai torinesi che hanno potuto ascoltarlo più volte quest'anno. Ho assistito a una meravighosa edizione de «La Dama di Picche» di Chaikovsky. L'incontro, preso lo spunto da questo legame artistico tra gli ambienti musicali delle due città, si è poi esteso al confronto tra storie di trasformazione fìsica e culturale (quella di Manchester e quella di Torino) straordinariamente consonanti. Ho parlato a lungo con Kath Robinson, che è la «Deputy Leader» del Consiglio comunale di Manchester. Il sindaco da quelle parti ha una funzione soprattutto di rappresentanza; la responsabilità politica di ciò che fa l'amministrazione comunale è di persone come lei. La storia che mi ha raccontato è un esempio di quella pianificazione strategica che anche da noi si è cercata di attuare con il progetto Torino Intemazionale. Manchester è la seconda città della Gran Bretagna con una conurbazione di circa tre milioni di abitanti (la sola città ne ha circa un milione). Fu la capitale della rivoluzione industriale inglese e visse per circa tre secoli di carbone, acciaio, tessile. Una quindicina di anni fa queste tre forme di produzione della ricchezza entrarono in profonda crisi; la Thatcher fu spietata con i settori in declino e specialmente con le città governate dai laburisti: nessuna sovvenzione, nessun assistenzialismo. Gli amministratori pubbhci chiamarono a raccolta le diverse componenti della comunità urbana con le quali avviarono la redazione di un piano strategico che individuasse i punti di forza su cui fare leva per invertire la rotta. Nella convinzione che fosse necessario un punto di forza centrale, questo fu individuato nello sport. Manchester è la capitale del calcio inglese, la sua popolazione è la più sportiva dell'isola e perciò la città si candidò alle Olimpiadi estive. Fu l'inizio della straordinaria trasformazione che è già stata realizzata e che ancora è in atto. Appena presentata la candidatura, Manchester volle dimostrare la capacità di realizzare bene e in fretta nuove costruzioni di grande livello e invece di allestire un nuovo impianto sportivo decise di puntare sulla cultura: vendette la vecchia sala da concerto e costruì la Bridgwater Hall, con 2400 posti e ima straordinaria acustica. Alla musica prodotta ih condizioni ideali dalle sue due orchestre, dirette dai più grandi direttori del mondo, Manchester chiese di lanciare il primo segnale della riscossa. L'impatto sull'opinione intemazionale fu così forte che subito partirono altre imprese ancora più coraggiose e sempre di natura culturale. L'architetto-artista Daniel Libeskind fu chiamato per costruire e allestire un Museo della Guerra che oggi è il più importante del mondo. In una vecchia fabbrica fu creato un enorme Science Center. Queste e altre imprese culturali furono messe in atto per ottenere la visibilità, la stima intemazionale e le sponsorizzazioni necessarie al perseguimento dell' obiettivo olimpico. Nel frattempo l'antica vocazione industriale profittò della nuova immagine della città ed ebbe un grande rilancio nei settori innovativi. Ciò che impressiona nella vicenda di Manchester è la somiglianza con quelle di Bilbao, di Glasgow e di altre città industriali che sono riuscite a superare le loro crisi produttive utihzzando la cultura come linguaggio per trovare una posizione nuova nel panorama intemazionale delle città affidabili. Per continuare ad essere grandi città industriali non posero l'industria al primo posto delle loro priorità, ma dissero al mondo: «Voi tutti credete che Bilbao sia la città degli altifomi e del porto fluviale che devasta il paesaggio: ebbene le nostre nuove priorità sono l'architettura e l'arte contemporanea!». «Voi tutti avete sempre pensato che Manchester sia la città più fumosa d'Inghilteira; ebbene le nostre nuove priorità sono lo sport e la musica!» e così via. Mi pare di poter dire che tutte le città industriali che «ce l'hanno fatta», hanno cercato di riequilibrare la loro immagine con proposte diametralmente e provocatoriamente diverse; raggiungendo così il duplice obiettivo di attrarre su di sé l'attenzione intemazionale e di rilanciare proprio quell'industria che le aveva messe in ginocchio. Non tutte le città «ce l'hanno fatta». Quelle che stanno continuando nel loro declino non hanno dimostrato la stessa spregiudicatezza e i loro leader ancora oggi continuano a dire: «La nostra città è sempre stata industriale. L'industria è la cosa che sappiamo fare meglio. Altre attività non stanno nel nostro Dna, non fanno per noi». Poiché però il rilancio dell'industria dipende dalla volontà dei nuovi imprenditori intemazionali di scommettere su una certa area piuttosto che un'altra, molti di essi si sono fidati più delle città che hanno avuto il coraggio di sorprendere con la loro audacia e il loro anticonformismo piuttosto che di quelle che non hanno immaginato niente di diverso da ciò che avevano sempre fatto. Ascoltando ciò che viene detto in diversi ambienti della nostra società e ciò che si legge talvolta sui giornali, non è facile capire a quale delle due categorie di città vuole appartenere Torino. Una volta chiediamo e otteniamo eventi olimpici o facciamo di tutto per valorizzare il nostro Museo Egizio (in altre realtà una scelta del genere sarebbe stato individuata come più che sufficiente per lanciare un segnale forte e chiaro al mondo intero); altre volte invece facciamo capire che l'unica identità nella quale crediamo veramente è quella industriale in generale e automobilistica in particolare, senza peraltro entrare nel merito del che fare per rilanciarla davvero. Non è obbligatorio ragionare come Manchester, Bilbao, Birmingham, Barcellona, Lione ecc. e soprattutto non è detto che esistano soltanto due modi di fare strategia: quello delle città citate e quello delle città che stanno sprofondando nel loro declino. Può darsi che ci sia una terza via, che sembrerebbe piacere a una parte dei torinesi: rimanere fermi alla tradizione e nello stesso tempo riuscire a superare la crisi in cui quella stessa tradizione si è arenata. Non ci resta che augurarcelo anche se non è facile illudersi che proprio a noi riesca il colpo che ad altri non è riuscito. Fiorenzo Alfieri Assessore comunale alla Cultura

Persone citate: Alfieri, Daniel Libeskind, Fiorenzo Alfieri, Gianandrea Noseda, Kath Robinson, Thatcher