Di Vittorio, a qualcuno piace riformista di Giuseppe Berta

Di Vittorio, a qualcuno piace riformista UNA BIOGRAFIA DELLO STORICO CAPO DELLA CGIL RIAPRE IL DIBATTITO SUL SUO RUOLO Di Vittorio, a qualcuno piace riformista Privilegiava il sindacato o sottostava al partito? Giuseppe Berta NON c'è parola più ricorrente, nel lessico pohtico itahano d'oggi, che «riformismo». Di essa, negli ultimi anni, si sono appropriati un po' tutti, ma indubitabilmente l'uso è generalizzato e frequente soprattutto nelle file della sinistra, dove del resto il termine è nato un secolo fa. «Riformismo» e «riformista» sono espressioni evocative che non rimandano più a categorie politiche precise; anzi, si ha spesso l'impressione che il loro suono allusivo serva a mascherare il vuoto di nuove classificazioni politiche, in grado di declinare posizioni e contenuti all'altezza dei tempi e dei problemi attuali. In ogni caso, il riferimento al riformismo vale ancora a tracciare discrimini e a segnare linee di identificazione, sicché non c'è da stupirsi se nel dibattito presente succeda di andare indietro, alla ricerca di archetipi storici cui saldare le scelte pohtiche odieme. Questo movimento a ritroso ha finito coll'imbattersì nella figura di colui che rimane, nella memoria collettiva del paese, il maggiore sindacalista itahano, Giuseppe Di Vittorio. L'immagine del segretario della Cgil possiede, del resto, tutte le caratteristiche per riaccendere questa discussione. Di Vittorio fu un dirigente per molti tratti atipico nell'universo comunista; era un leader carismatico ben diverso da Toghatti, da cui lo separava una personalità sanguigna, una tempra umana che si impresse all'attenzione di quanti ebbero occasione di frequentarlo o di ascoltarlo in comizi e manifestazioni di massa dove rifulgeva la sua capacità di comunicazione. E poi tutti ricordano il Di Vittorio protagonista della stagione della ricostruzione all'indomani della seconda guerra mondiale, fermo nel rappresentare i lavoratori ma attento nel perseguire soluzioni contrattualì pércombUì. Infine, il grande sindacalista pughese simboleggia l'alternativa mancata del 1956, quando la Cgil, dinanzi al dramma dell'invasione sovietica dell'Ungheria dilmre Nagy, prese posizione contro l'intervento, distaccandosi dal¬ la posizione ufficiale del Pei. Al punto che si finisce col trascurare la rapida abiura di Di Vittorio, costretto a sottostare alla ragione di partito. Ora Antonio Carioti dedica al segretario della Cgil un nuovo, rapido profilo biografico (Di Vittorio, Il Mulino, pp. 170, C12), rivendicando apertamente la sua «intima e per molti versi inconscia vocazione riformista», con un giudizio che sta facendo discutere. Certo Carioti sostiene che il riformismo di Di Vittorio era ben lontano dall'accezione «usuale nel dibattito contemporaneo» e che la sua visione della società industriale era approssimativa e viziata dall'ideologia, così come convinta era la sua fede nella necessità di superare l'ordinamento capitalistico. Ma al tempo stesso rifiutava di assorbire l'azione sindacale nell'orizzonte pohtico comunista ed era persuaso della necessità di salvaguardare una forma di autonomia sindacale. H Di Vittorio riformista tratteggiato da Carioti sta suscitando reazioni sia di consenso sia di dissenso. Fra chiè propenso ad accreditare le ragioni della sua diversità nella storia della sinistra comunista vi sono un commentatore pohtico come Paolo Franchi, che non mena scandalo per la ricerca di padri nobili del riformismo, e un testimone e dirigente autorevole della vicenda del Pei come Emanuele Macaluso. Sulla sponda opposta si è invece schierato II Foglio, che nega la vocazione riformista di Di Vittorio, il quale, se non fu di sicuro un allineato, non era tuttavia mosso da alcuno spirito riformista. Nella sua riluttanza a aderire alla linea ufficiale del Pei sì potrebbe semmai scorgere una traccia dell'antico anarcosindacalismo giovanile; tutto il contrario, dunque, del gradualismo metodico proprio dei riformisti. Il lìmite di questo confronto è che a rimanere indeterminata è la natura del rifonnismo di cui Di Vittorio sarebbe o non sarebbe stato il portatore. Focalizzando l'attenzione sull'asse pohtico, si tralascia lo specifico mestiere di sindacalista, impersonato dall'ex bracciante di Cerignola. Se Di Vittorio è per tutti il segretario emblematico della Cgil piuttosto che un esponente comunista di primo piano, allora è evidente che si tratta di fare i conti con quanto egh introdusse nella cultura del sindacato itahano, un aspetto che permane carente nel libro di Carioti, più interessato alla storia politica che a quella economica e delle relazioni industriali. Uno storico certamente non corrivo verso la tradizione sindacale della sinistra come Piero Craveri ha riconosciuto lo sforzo di Di Vittorio per «dare al sindacato un fondamento di autonomia teorico e pratico», sebbene entro gh argini insuperabili dello scontro pohtico vigente nell'Italia post 1948. In particolare, di fronte alla clamorosa sconfitta della Cgil alla Fiat nel 1955, egh seppe ammettere che la causa prima della débàcle non stava nella repressione anticomunista di Valletta, ma nel deterioramento del legame fra i lavoratori e l'azione sindacale. Di Vittorio disse che la Cgil non aveva saputo comprendere l'intensità e la portata della trasformazione tecnologica in atto nelle fabbriche italiane, con un radicale mutamento della condizione operaia. In questo giudizio si riflettevano, al contempo, la sua sensibilità sindacale e l'estraneità ai problemi della società industriale. Se per riformismo si intende la capacità di cogliere la direzione di marcia della società per correggerne squilibri e ingiustizie, allora Di Vittorio non fu un riformista nel senso moderno. Altri nel sindacato, in quell'epoca, lo furono più di lui; per esempio uno studioso come Mario Romani die, dividendosi fra lUniversità Cattolica di Milano e il centro di formazione della Cisl di Fiesole, sostenne il decentramento della contrattazione, allo scopo di agganciare i salari allo sviluppo della produttività. Di Vittorio ebbe invece il merito, negli anni difficili della ricostruzione, di dimensionare l'azione sindacale ai problemi generali del mercato del lavoro e della disoccupazione, con un impegno alla ricerca delle compatibilità che costituisce una delle sue lezioni e dei suoi lasciti migliori al sindacato itahano. Per Antonio Carioti rifiutava di assorbire l'azione sindacale nell'orizzonte politico del Pei di Togliatti D'accordo Macaluso e Piero Craveri contrario II Foglio Negli anni difficili della ricostruzione ebbe il merito di tenere conto dei problemi generali del mondo del lavoro: l'impegno alla ricerca delle compatibilità è uno dei suoi lasciti migliori Giuseppe Di Vittorio nacque a Cerignola nel 1892, morì a Lecco nel 1957 dopo un impegno sindacale

Luoghi citati: Cerignola, Fiesole, Italia, Lecco, Milano, Ungheria