RIMBAUD Bell'Abissinia così ti illumino di Giuseppe Marcenaro

RIMBAUD Bell'Abissinia così ti illumino LA F'O T 0 G R A F I A COME LETI U -R A » T R A N A D A R RIMBAUD Bell'Abissinia così ti illumino Giuseppe Marcenaro N vista di Aden il postale delle M e s saggerie Marittime rallentava. H ronfo cadenzato delle macchine vibrava sordo, emanava trabalzi. Vibrazioni che, correndo per il ponte perlinato di tek, scuotevano la piccola folla assiepata a prua, curiosa della città. Tra questi - errabondi illusi di fortune, mercanti girovaghi, pellistorte ansiosi cfì imprevisti - stava un uomo di ventisei anni, alto, i capelli scarruffati, le narici golose degli odori che venivano da terra, gli occhi blu. (... Nel 1880 Aden era un vivacissimo avamposto: il varco da cui passavano le mercanzie per l'Asia. (...) Quando vi approdò, il 7 agOT sto 1880, Arthur Rimbaud stava per compiere ventisei anni. Da tre aveva smesso di scrivere versi. Ad Aden da cinque non pioveva. (...). Il medesimo giorno del suo arrivo ad Aden, Rimbaud scrisse una lettera alla madre: "Ho lasciato Cipro da quasi due mesi, con 400 franchi dopo alcune discussioni con il pagatore generale e il mio ingegnere... Sono venuto qui dopo aver tentato di trovare qualche cosa da fare in Abissinia. Sono impiegato da un commerciante di caffè, dove guadagno per ora sette franchi. Quando avrò qualche centinaio di franchi, partirò per Zanzibar, dove, a quel che si dice, c'è da fare". Non un cenno al paesaggio, all'ambiente, all'affocata Aden, senza un filo d'erba, né una goccia d'acqua buona. Non gli sarebbero certo risultate estranee le curiosità per un mondo sconosciuto che gli si apriva. Lungo la periferia di Aden, nelle ore silenziose di metà giornata, scopriva umanità che spuntavano da buchi fatti per terra; che vivevano di libera povertà, una miseria ignara del proprio immateriale destino. Era gente, quella, che possedeva solamente lo straccio che velava corpi di legno combusto. Occhi curiosi scrutavano lo straniero. (...) L' ex poeta avrebbe trovato i suoi soggetti all'Harar, un nome impreciso: è variabilmente Harrar, Adar e anche Herèr, secondo la gutturalità dei suoni che la lingua aramaica consente. Harar, punto di incontro di popolazioni che si guardavano con astio, cugini di un'unica razza spaccata in tribù a causa di antiche liti familiari, piccole nazioni ricche di nulla se non di fierezza e disperazione. I capelli impastati col fango. Allora la città abissina, simile a un'amia, capanne su capanne, subito slabbrate appena alzate, sorgeva a una altitudine di circa 1700 metri. Una città murata, biblica, digradante sui versanti di un ampio dosso. Fuori della cinta campi coltivati, giardini di banani, piantagioni di caffè, alberi, che affondavano le radici in ima terra densa, tinta di sangue. Da quell'altura si scorgeva l'uebi Scebeli, il fiume sacro degli etiopi, color pantano, giallo ocrato a causa delle terre erose lungo il suo viaggio. Qui dominavano i Galla, gente di abile commercio (...). Quando Rimbaud vi arrivò, dopo Aden e Zeilah, pensò d'aver trovato il giardino celeste. In questo luogo, tra viaggi e avventurose vendite d'anni a re Menelik, auspice ras Makonnen, visse Rimbaud l'ultima parte della sua vita. Amò quel posto? Sperò di viverci per sempre? Difficile dirlo. Una cosa è comunque certa: Harar è l'unica città, tra le tante del suo errare africano, che "documentò" con una macchina fotografica. Scriveva il 15 gennaio 1881 all'ineffabile madre e alla sempre trepida sorella Isabelle: "Facciamo arrivare un apparecchio fotografico, e vi spedirò delle vedute del paese e delle persone. Riceveremo anche il materiale di laboratorista di storia naturale, e potrò inviare uccelli e animali ancora sconosciuti in Europa. Ho già qui alcune curiosità che aspetto l'occasione di spedire...". Lettera che in un certo qual modo giustifiche¬ rebbe la lapide collocata sulla sua casa natale, nella plumbea Charleville. Sul marmo eroso una scritta rammemora la venuta al mondo d'uno dei più grandi geni della poesia moderna: "In questa casa nacque Jean-Nicolas-Arthur Rimbaud esploratore e poeta". Ci vollero sei mesi affinché l'attrezzatura fotografica gli arrivasse da Lione, commissionata tramite il colonnello Dubar, un personaggio che Rimbaud ben conosceva (...). Rimbaud viveva l'illusione di un veloce profitto per mezzo della fotografia la cui tecnica conosceva solamente per averla "studiata teoricamente" su un manuale - "Ho un trattato di fotografia nel mio bagaglio..." - e sperava, attraverso la riproduzione del mondo, di compiere autentiche campagne di immagini dei luoghi che andava esplorando, per venderle in Francia con un certo guadagno. Avrebbe tentato il catalogo dei paesaggi africani. I progetti li confidava alla madre. Anche per tenere calma la sempre accorta genitrice che, a Roche, nelle Ardenne, conducendo ima fattoria con polso fermo, era una che sapeva badare al soldo. (...) 'Dici che mi derubano - le scriveva da Harar l'S dicembre 1882 - ma so benissimo quanto costa un apparecchio da solo: alcune centinaia di franchi. Ma sono i prodotti chimici, molto numerosi e cari e fra i quab ci sono dei composti d'oro e d'argento che valgono fino a 250 franchi il chilogrammo, sono gli specchi, le carte, le vaschette, i flaconi, gli imballaggi molto cari, che ingrandiscono la somma. Ho chiesto ogni genere di ingredienti per una campagna di due anni. Per quanto mi riguarda, trovo che sono servito a buon prezzo. Non ho che un timore, che quelle belle cose si rompano per strada, in mare. Se mi arrivano intatte, ne trarrò un grande profitto e vi manderò delle cose curiose. Invece di arrabbiarti, non hai che da rallegrarti con me. Conosco il prezzo del denaro; e se azzardo qualcosa, è con conoscenza di causa". La mente erratica, in quei momenti, poteva portarlo forse a un ormai lontano accadimento, a una fotografia. Al ritratto di lui diciassettenne. Era successo tutto così in fretta. La sera del 4 ottobre 1871 sembrava remota. In una saletta dell'hotel des Etrangers, in boulevard SaintMichel a Parigi, davanti allo sbigottito gruppetto di poeti parnassiani, aveva letto i propri versi: "Comme je descendais des fleuves impossibles...". Era il Eateau ivre. Il ragazzo Rimbaud proseguiva tra la meravigliata attenzione di Coppee, Merat, Mendès, Blemont, Verlaine... Arrivato a Parigi da Charleville da appena due giorni, indossava un abito troppo stretto, sembrava esservi cresduto dentro. Portava calze azzurre sferruzzate alla contadina. Terminata la lettura un fremito aveva attraversato gli entusiasti hommes des lettres del "Pamasse". (...). Acclamato come una primadonna, come la soubrette del Ballo Excelsior, fu celebrato in un ritratto. Concordarono tutti che quel giorno magico e memorabile dovesse essere 'bloccato" da un segno immutabile. Così Rimbaud, il "fandullo dolce e demoniaco" fu condotto nello studio di Carjat che lo mise in posa. Da quel momento gli occhi di Rimbaud ci guardano. Gli autoritratti, scattati all'Harar, li spedì "ai suoi" perché potessero vedere come il poeta delle più efferate stagioni all'inferno si fosse trasmutato in esploratore e mercante. Era riuscito in un possibile gioco inconscio (o voluto?) a rendere tangibile la sua conclamata teoria poetica: 'lo è un altro". "Vi mando - scriveva - fotografie di me stesso fatte da me... Quelle fotografie mi rappresentano, una, in piedi su una terrazza della casa, l'altra, in piedi in un giardino di caffè: un'altra, con le braccia incrodate in un giardino di banani. Tutto è riuscito scialbo, a causa delle cattive acque che uso per lavare. Ma farò un lavoro migliore in seguito. Questo è soltanto per ricordare il mio aspetto, e darvi un'idea dei paesaggi di qui". Rimbaud doveva tuttavia ritenersi passabilmente soddisfatto perché inviò altre copie delle sue fotografie ad Alfred Bardey, il titolare della ditta dove aveva lavorato ad Aden. Che gli scrisse il 24 luglio 1883: "Mio caro signor Rimbaud, mio fratello mi ha inviato le fotografie che avete voluto cortesemente mandargli per me. Vi ringrazio molto per questa attenzione. Ho provato un grande piacere nel rivedere qualcosa di Harar... Sotiro è splendido in mezzo alla giungla che voi chiamate giardini di Rauf Pascià. Parecchie delle vostre fotografie sono un po' confuse, ma si vede che c'è un progresso perché le altre sono perfette. Vorrei esprimervi la mia riconoscenza per la vostra attenzione, ma voi siete un po' bizzarro, e non so che cosa mandarvi per farvi piacere. Ditemi se degh strumenti come teodolite, grafometro, ecc. vi piacerebbero". La "produzione" di Rimbaud fotografo si riduce a otto fotografie: tante se ne conoscono. Reperti sbiaditi su carta povera: tre autoritratti, una confusissima veduta del mercato di Harar, una capanna, un indigeno accucciato davanti ad alcune scodelle rotte, un somalo altero in groppa a un cavallo bianco; e il ritrattò di Costantino Sotiro, ambientato in un giardino di banani. Sotiro, un greco conosduto anche come Adji-Aballah, somigliava a un atlante geografico, conosceva tutte le strade e sapeva il nome di tutte le stazioni. Aveva più o meno l'età di Rimbaud e gli era devotissimo. Commerciarono e lavorarono insieme. Sotiro divenne un mito tra i nativi. Di lui non si sa quasi nulla. Pochissime le informazioni sulla sua vita. Le ultime, indirette, grazie a due lettere che, in uno sgrammaticatissimo italiano, scrisse a Rimbaud, ricoverato, all' ospedale della Conception di Marsiglia, dopo un doloroso e avventuroso viaggio. Il tumore al ginocchio mangiava la sua esistenza. La fine iniziò con l'amputazione della gamba destra. "Carissimo amico A. Rimbaud, mi viene in mano la vostra del 4 luglio in quale con dolore vedo la vostra corrente storia in Ospedale, ma grazie a dio, che siete guarito e non avete più dei terribili dolori di non poter dormire... fate imparare adagio, di non faticare anche la sana gamba... Notizie del nostro paese: fame in paese di Harar e Abissinia, si mangia l'un l'altro". Sotiro non avrebbe certamente mai immaginato di diventare, a suo modo, un "immortale", grazie a quella fotografia scattatagh dal carissimo amico Rimbaud, un giorno, in un giardino di banani. Sparì, così sembra, senza lasciare tracce. Si ignora se abbia avuto notizia della morte di Rimbaud. IL POETA GIUNGE IN AFRICA QUASI VENTISEIENNE, DA TRE AVEVA SMESSO DI SCRIVERE VERSI DA HARAR. GENNAIO 1881. SOLLECITA LA MADRE: «FACCIAMO ARRIVARE UN APPARECCHIO FOTOGRAFICO. VI SPEDIRÒ' DELLE VEDUTE DEL PAESE E DELLE PERSONE» OTTO FOTOGRAFIE, DI CUI TRE AUTORITRATTI: «MI RAPPRESENTANO, UNA, IN PIEDI SU UNA TERRAZZA DELLA CASA. L'ALTRA, IN PIEDI IN UN GIARDINO DI CAFFÈ, UN'ALTRA. CON LE BRACCIA INCROCIATE IN UN GIARDINO DI BANANI» jMilllliri«w*aa«M«wMiiMi ;'V^;\.^- Al centro un autoritratto di Rimbaud; a sinistra il poeta durante una caccia all'elefante con il primo ministro di Menelik II; a destra un mendicante in una foto dello stesso Rimbaud