Poca jihad e molto business dietro le bombe di fine giugno di Giuseppe Zaccaria

Poca jihad e molto business dietro le bombe di fine giugno UN CONFRONTO SPIETATO PER IL PETROLIO E LA RICOSTRUZIONE Poca jihad e molto business dietro le bombe di fine giugno La nuova polizia e il nuovo esercito vengono attaccati perché sono il simbolo di un progetto che rinvia all'infinito la gestione delle risorse analisi Giuseppe Zaccaria I N termini di cifre il discorso si potrebbe condensare in poche battute: l'area metropolitana di Baghdad avrebbe bisogno di almeno sessantamila poliziotti in piena efficienza e invece può contare soltanto su quarantamila reclute appena assunte, equipaggiate con materiali di scarto e addestrate alla meno peggio. Considerare la questione in questi termini significherebbe però ridurla a un semplice problema di numeri, il che non è. Al contrario, l'attentato di ieri semina preoccupazione non tanto per la potenza della bomba e il numero delle vittime che ha seminato quanto per ciò che sembra dimostrare, e cioè che il «passaggio dei poteri» programmato per il prossimo 30 giugno è stato già liquidato dai vari gruppi iracheni come operazione di facciata, contro cui si organizzano risposte sern^ pre più sanguinose ed eclatanti. Le cose sembrano disporsi in modo più chiaro, e non per questo meno allarmante: proprio mentre le reclute della polizia irachena vedevano prematuramente troncata la loro carriera, Moqtada al-Sadr lanciava un nuovo appello al disarmo per il suo «Esercito del Mahdi», ,e dunque in qualche misura la guerriglia irachena continuava perdere pezzi di jihadismo qualificandosi sempre più per quello che è, ossia un confronto spietato sul possesso delle risorse petrolifere e sul controllo della ricostruzione. Un sondaggio di questi giorni, voluto dall'Autorità provvisoria e diffuso dall'Associated Press, conferma quel che ormai tutto il mondo crede di sapere, e cioè che la maggioranza degli iracheni si sentirebbe più al sicuro se l'esercito americano lasciasse il Paese. Un portavoce Usa di nome Dani Senor ha commentato così l'indagine: «Dimostra che gli iracheni come chiunque altro non amano che il proprio Paese sia occupato, esattamente come noi "non amiamo sentirci occupanti»: nelle prossime settimane l'ondata di violenza che si annuncia si consumerà ancora una volta nella distanza fra dichiarazioni di principio e fatti concreti. Nell'anno trascorso dalla fine della guerra guerreggiata il terrorismo e la resistenza iracheni hanno manifestato anime sempre diverse, e via via sempre più aggressive. Da un nucleo iniziale di guerriglia che si manifestò quasi subito a Falluja e fu bollato come sacca di reazione saddamista si è passati alle autobomba di Al Qaeda, alle mine poste da gruppuscoli sunniti sul tragitto di convogli americani, a momenti di autentica guerriglia provocati dair«Esercito del Mahdi», agli scontri in campo aperto di Falhya. Fino ai momenti della nascita di un nuovo governo e all'ultima risoluzione delle Nazioni Unite tutto questo poteva apparire come una coda del caos che presto sarebbe stato risolto da ima nuova assunzione di responsabihtà irachena e dalla nascita di un esecutivo che emettesse almeno qualche vagito di indipendenza. L'attentato di ieri dimostra fino a che punto quest'idea corrisponda al prolungamento di un'illusione. La tremebonda nuova pohzia irachena oggi viene attaccata proprio' perché agli occhi degli arabi rappresenta il primo e più visibile tassello di un progetto-ponte che nei fatti rinvia a tempi indefiniti la gestione delle risorse. Oggi un membro della «nuova» polizia di Baghdad guadagna 330mila dinari al mese, ovvero 250 dollari, che rappresentano il quintuplo di uno stipendio medio, e nonostante questo il reclutamento segna il passo poiché dai gruppi guerrigheri si è già diffuso il messaggio che avverte: «Ogni nuovo adente per noi è un collaborazionista». Contemporaneamente, una nuova ondata di attentati colpisce viceministri di un governo non ancora insediato e strutture petrolifere, quasi a voler paralizzare ogni attività in via preventiva. Il terzo obiettivo continua a concentrarsi sugli eserciti privati che ormai infestano il Paese, dovunque c'è sentore di «conctractor» occi¬ dentale fischiano pallottole o esplodono ordigni. Di qui al 30 giugno, e più ancora nelle settimane successive, ci si potrà attendere solo un infittirsi di scontri e attentati con una guerriglia che continuerà a mostrarsi sempre meno ispirata a fattori religiosi e sempre più terribilmente legata a interessi concreti. Se le indiscrezioni che si sentono circolare hanno qualche base, nel nuovo governo si confrontano già due linee di pensiero: c'è chi pensa di incrementare gli arruolamenti in polizia e di ricostruire una parvenza di esercito affidandosi alle forze in campo (e in questo senso le nuove forze armate irachene si disegnerebbero già come federazione di bande) e chi invece per sfuggire a questo pericolo propone di accogliere nuove forze private, cioè di aprire ulteriormente la strada a quei moderni lanzichenecchi che si usa definire «contractors». Dalla scelte che si compiranno nei prossimi giorni dipenderà gran parte del futuro dell' Iraq, quanto meno sotto il profilo della sicurezza. Il primo ministro iracheno lyad Allawi sul luogo dell'esplosione che ieri a Baghdad ha ucciso trentacinque persone

Persone citate: Allawi, Dani Senor, Moqtada Al-sadr

Luoghi citati: Baghdad, Falluja, Iraq, Usa