Non ci resta che il RUMORE di Marco Belpoliti

Non ci resta che il RUMORE IN UN SAGGIO DEL GEOGRAFO TURRI LA DISTRUZIONE SONORA, OLTRE CHE VISIVA, DELL'ANTICO PAESAGGIO ITALIANO Non ci resta che il RUMORE Marco Belpoliti LE lamentele riguardo al rumore sono molto antiche. Nelle città medievali il suono più fastidioso, quello più temuto, era il suono della voce umana, in particolare i canti e le percussioni, così che le autorità cittadine furono costrette a disciplinarlo con specifici bandi. Prima della rivoluzione industriale tuttavia i rumori erano sonori e brillanti, come quello del martello agito dalla mano dell'uomo, o il suono della pietra levigata e scheggiata negli opifici; allo stesso modo, il passaggio dei carriaggi sui selciati cittadini era percepito come un suono forte e tuttavia accettabile. Sono invece i materiali moderni, come l'asfalto e il cemento, a produrre suoni fastidiosi: piatti e uniformi. Se in questo istante il vostro orecchio cerca di percepire i rumori della dttà in cui vivete, al di là del doppio vetro della finestra (dietro cui avete costruito il vostro silenzio casalingo, solo a tratti interrotto dal ronzio del frigorifero, dall'accelerazione della lavatrice, dal flusso sincrono della lavastoviglie o dal vorticoso circolare del riproduttore di ed) coglierà i suoni che interrompono il brusio di fondo della città: clacson, sirene degli allarmi, autoambulanze, motorini che accelerano, lo sferragliare del tram o la frenata di ima automobile: tutti i possibili e acuti suoni, ma non il grigio rumore che non udiamo più e che è invece il fondo sonoro delle metropoli occidentali. In un libro innovativo, uscito 25 anni fa, U paesaggio sonoro (ripubblicato nel 1998 da Lim, pp. 380, e 30), il musicologo canadese R. Murray Schafer spiega come la rivoluzione industriale ebbe una fondamentale conseguenza nel paesaggio aùditivoiHb comparsa della linea retta. Le macchine, di cui non possiamo più fare a meno, creano suoni a bassa informazione e alta ridondanza. In acustica, spiega Murray Schafer, la linea retta continua è una costruzione artificiale; nelle società antiche i suoni erano invece, per la maggior parte, distinti e discreti: «la linea retta in acustica è il risultato d'un crescente desiderio di velocità. (...) I piedi dell'uomo accelerarono fino a divenire il rombo dell'automobile ; gli zoccoli dei cavalli il sibilo dei treni e degli aerei; e la piuma d'oca si trasfonnò nell'onda radio el'abaco nel ronzio delle termiti del computer». Il rumore fa dunque parte del nostro paesaggio quotidiano, così che, salvo in rari luoghi del pianeta, come le vette delle montagne, non è più possibile guardare un paesaggio senza includervi i rumori di fondo. Partendo da questo asserto il geografo Eugenio Turri ha scritto un libro intitolato II paesaggio e il silenzio (Marsilio, pp. 248, e 23), in cui descrive la distruzione sonora, oltre che visiva, dell'antico paesaggio italiano, forse uno dei paesaggi più antropizzati del mondo in cui si accumulano orme, tracce, sbreghi, tagli, cicatrici sotto forma di segni die solo un occhio esercitato riesce ancora a registrare come tali, a distinguere e discriminare. L'evoluzione del paesaggio italiano è stata così rapida e virulenta che le istantanee anche solo di un decennio fa hanno il sapore e il colore di iminagini remote, fungono da registrazioni di un sito archeologico. Di fronte a questa trasformazione d sonò spio due atteggiamenti possibili: la nostalgia o l'accettazione. Turri è incerto tra le due. Il fatto di essere un geografo attento alle modificazionilo spinge a prendere atto del cambiamento, ma la sua sensibilità, l'attenzione e la cura dello spazio che egli pone nel suo scrivere, lo inducono invece alla nostalgia e al rimpianto: che paese meraviglioso era lltalia! Ma che cos'è esattamente un «paesaggio»? W. Hellpach, autore di un libro assai citato, uscito negli anni della seconda guerra mondiale in Franda, dal titolo preveggente, Géopsiché, sostiene che perché la natura diventi paesaggio occor¬ re che cessi di preoccupare l'uomo. Il paesaggio è dunque sempre l'effetto di una manipolazione, di un intervento normativo dell'uomo. La lettura del mondo, aggiunge Turri, che dta il filosofo Hans Blumenberg, è un atto razionale che d porta a vedere nel paesaggio, composto di dettagli e frammenti spaziali, un tutto. Le dolci colline toscane segnate dalle file dei cipressi, i terrazzamenti sinuosi delle Cinque terre, i filari di vite della Pianura padana, sono tre esempi di paesaggi che suscitano sensazioni piacevoli, armoniose, per via dell'azione costruttiva dell'uomo: il paesaggio è sempre il prodotto di un lavoro, di una fatica, è il risultato della combinazione di occhio e mano. La stessa idea di genius loci, quel quid misterioso per cui un luogo è un luogo - un muretto, la curva di un fiume, un angolo di città, un giardinetto, una vecchia statua in ima piazza ecc. -, dipende da qualcosa che è insieme culturale e naturale: da una visione culturale della natura. Turri, che ha allenato il proprio occhio nei viaggi tra i nomadi del deserto (il libro è ispirato alla loro frequentazione), ai paesaggi dell'Armenia turca o a quelli dell'Iran centrale, fa fatica ad accettare lo stravolgimento degli antichi paesaggi padani oggi assediati da plinti di cemento, dai Earallelepipedi grigiastri delle fabriche, dagli svincoli autostradali, dalle bretelle e dalle circonvallazioni che cingono le antiche dttà turrite e i sonnolenti e pacifid borghi. E ha ragione. Nell'arco di un decennio il silenzio delle dttà di provincia si è trasformato nel rumore assordante della dttà diffusa, la «città infinita», come la si definisce, assurda e al tempo stesso seducente, dttà senza confini, non solo in America o in Asia, ma anche a Roma o Milano, conglobato di costruziom alte e basse, piccole e grandi, eclettica architettura senza forma e senza autore, dove la differenza tra periferia o centro è stata abolita, come mostrano le fotografie di Gabriele Basilico, che vede le nostre città (Milano, Roma, Genova ecc.) vuote e qniformi nelle ore dell'alba, dttà spettrali eppure meravigliosamente seducenti come in un quadro di Mario Sironi. U paesaggio tradizionale è perduto, forse per sempre, e viviamo dentro i nuovi paesaggi, in cui la città reale confina con quella virtuale, l'agglomerato urbano, composto di strade vuote e di edifìci pieni, con la dttà elettronica fatta di visioni luminose che appare di colpo su uno schermo. Nonostante la sua spiccata nostalgia per il passato, Turri, da acuto geografo, d fornisce gh strumenti per leggere il paesaggio stravolto in cui viviamo, per cercare di decifrare i suoi segni. In uno dei saggi egli oppone l'archetipo della «radura» a quello dell'«oasi», proponendo una bipartizione davvero interessante. La radura è lo spazio vuoto che d crea dentro un luogo denso, ad esempio una foresta: spazio abitato dall'uomo, segno della sua presenza nello spazio naturale. La radura è includva; lo sguardo di chi vi abita è rivolto a dò che accade dentro, escludendo di fatto il mondo esteriore al di là del perimetro del villaggio. Questa è la struttura del villaggio amazzonico, in cui lo spazio interno è diviso tra due clan opposti, sistema mediante cui la cultura locale interiorizza l'esterno, lo riproduce nella forma inclusiva. Al contrario, l'oad è uno spazio die d differenza dall'intorno: il giardino di palme nel deserto; l'oad è una forma ben visìbile per chi si sposta nello spazio vuoto del deserto, è un prezioso segnale per gh outsider. Nel descrivere queste due situazioni, die hanno un loro riscontro anche nel paesaggio antropizzato della Vecchia Europa - il paesaggio a campi aperti, openfield, e il paesaggio con campi a recinti di alberi, abocage, dell'Europa atlantica -, Turri evidenzia due forme, due archetipi del paesaggio in generale, fondato sul dentrcVfuori, sul!' inclusione/esclusione, sulla dialettica vuotc/pieno che vale non solo per le campagne francesi o inglesi, ma anche per i cybeipaesaggi che abbiamo cominciato ad abitare da almeno un decennio. Il nuovo paesaggio antropologico descritto dai geografi del cyberspado è esso stesso il risultato di un lavoro dell'uomo che, invece di avere al centro la Natura, ha come suo riferimento il Sapere. Questo nuovo tipo di paesaggio abolisce uno dei punti fermi del paesaggio tradizionale descritto da Turri nel suo libro: la localizzadone. Se io ora sono a Milano, non posso certo essere a Roma; tuttavia nel cyberspado non esiste il luogo: si può essere ubiqui, come sperimentano ogni giorno migliaia di persone che navigano dentro i paesaggi elettronid. A definird non sono la strada sotto casa, il viale alberato, la piazza circolare o il caseggiato fatiscente, bensì i bit. Per circa un ventennio i geografi si sono interrogati sul senso della loro disdplina e hanno concluso che essa è prima di tutto la risposta al nostro esilio dalla Natura. Oggi qualcosa è mutato. Le nuove geografie del cyberspado ci portano più vicini a un'altra natura, la nostra: più vicini alla nostra interiorità, alla nostra stessa psiche, tanto che è diventato necessario aggiungere un capitolo di psico-grafia all'antico libro della geo-grafia. ff id Traffico in una strada di Genova: ormai il rumore fa parte del nostro paesaggio quotidiano