Il cappuccio calato sulla scena politica italiana di Filippo Ceccarelli
Il cappuccio calato sulla scena politica italiana Il cappuccio calato sulla scena politica italiana Filippo Ceccarelli GUERRE simboliche e oggetti che cambiano senso. C'è già un cappuccio nella foto di cronaca più bella dello scorso anno, primo premio World Press Photo 2003. Si vede un prigioniero iracheno che è un padre; o un padre prigioniero che, seduto per terra, dietro un filo spinato, abbraccia il figlio piccolo, un bambino di cinque o sei anni. Il bambino si è tolto le scarpe; il padre ha un cappuccio in testa. Nero. Anche i prigionieri di Guantanamo avevano (hanno ancora?) degli appositi sacchi sulla testa. Arancioni, pare di ricordare, come le divise. E di plastica. Ma il risultato non cambia con il colore o il materiale. Quel buio sugli occhi è concepito dai vincitori come uno strumento di privazione spaziale, forse temporale, per gli sconfitti. Pure ai torturati di Abu Ghraib veniva messo il cappuccio, come si è potuto vedere nelle terribili immagini che i carcerieri si scattavano. Quell' invasivo copricapo ha una resa fotografica irresistibile, spaventosa, disumanizzante. Quando è venuta fuori la storia delle sevizie, davanti al carcere di Baghdad è venuto un uomo, e per protestare si è calato in testa un cappuccio. I fotoreporter occidentali hanno riprodotto e diffuso quell'immagine. Anche in quel caso non c'era molto da capire: quel pezzo di stoffa parlava da solo, s'è fatto simbolo. Ma come molti simboli è ambivalente: c'è il cappuccio del boia e quello della vittima; c'è il cappuccio della più spaventosa realtà e quello finto della protesta e della provocazione. Gli stessi estremisti fanatici dell'islamismo hanno contribuito alla grande incappucciata del 2004. Un po' perché, come diversi gruppi terroristici (tipo l'Età), nascondono il volto davanti alle telecamere, forse per mettere più paura. E ci riescono: da che mondo è mondo la maschera sul volto incute terrore, come ben sanno quelli del Ku Klux Klan. Ma anche al povero Quattrocchi devono aver messo un sacco sulla testa: tra le prime versioni - un po' confuse, per la verità - si è detto che quella sua ultima e ormai famosa frase, «Adesso vi faccio vedere come muore un italiano», fu pronunciata proprio mentre cercava di togliersi il cappuccio per guardare in faccia i suoi carnefici. Eppure, dopo tutto, c'entra sempre la testa. E se l'estremismo islamico la taglia via a coltellate, l'estremismo occidentale la copre gettandola nell'oscurità per meglio accanirsi sul corpo (talvolta anche garantendone una ricaduta visiva, o per meglio dire pornografica). Non è la stessa cosa, però un certo parallelismo rituale non solo esiste, ma in qualche modo omologa al peggio la brutalità primordiale islamica e la più sofisticata psico-tecnologia occidentale fondata sui manuali di spersonalizzazione del nemico. Quel che colpisce però è la rapidità con la quale, in tutto il mondo, una politica ormai sempre più visiva s'è impossessata del cappuccio facendo l'emblema dell'atrocità. Dall'America, dove il movimento MoveOn ha mandato in onda spot televisivi con la statua della Libertà incappucciata, alle Filippine dove per primi hanno sfilato con il sacco in testa, fino all'Italia. L'altra settimana, nella sala della Provincia di Roma, due esponenti no-global, con il sostegno di Rifondazione comunista, hanno tenuto una conferenza stampa sulle imminenti iniziative anti-Bush con un cappuccio sul volto. Apriti cielo. Quel pezzo di stoffa ha scatenato un mucchio di prese di posizioni, compresa quella del ministro dell'Interno contro «la minacciosa esibizione degli incappucciati». Eppure quella, più che una minacciosa esibizione, sembra la prova di come al giorno d'oggi lo spettacolo sia divenuto, a costo zero, tanto efficace quanto difficile da contrastare. Così il cappuccio fa paura perché nega la natura umana. Ma se questa, fra torture e scannamenti, tradisce se stessa, beh, allora forse pure un cappuccio scenico, virtuale e provocatorio può servire a farci su un pensierino.
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