JOAN MIRO Il calligrafo del cielo stellato
JOAN MIRO Il calligrafo del cielo stellato JOAN MIRO Il calligrafo del cielo stellato no e o moderni» Marco Vallerà RANDE, grandissimo Mirò. Proprio perché sempre lìbero, arioso, nocchiere superbo ed insieme umile dei propri grandiosi «vuoti» dipinti, che sino alla sua scomparsa, quasi centenaria, veleggiarono spumeggianti sulle ciglia cedevoli e stupefatte deUe pareti del mondo. Senza mai un intoppo fastidioso, un irrigidimento ideologico, una sclerosi del gusto, parola che i soloni della surrealtà spesso ostentano ancora di disprezzare. È questo, soprattutto, che stupisce in lui, se lo si compara ad altri maestri del moderno, che invece hanno subito inciampi e cadute vertiginose nella torpida vecchiaia, irrigimentata o mercantile (basterebbe pensare a Max Ernst l'onirizzato, o talvolta a Derain e soprattutto a Chagah). Mirò no. Da buon metafisico e meditatore orientale, da calligrafo del cielo dipinto-stellato, non smette mai di rigenerarsi e di snellire i propri commerci con la realtà ed i dialoghi generosi con il proprio inconscio. Un subconscio altamente bambino, che non vuole, hretonianamente o freudianamente, sapere, insegnare, indottrinare. Lasciatemi «sporcare» queUa parete, sembra ripetere ogni volta, palazzeschianamente, questo palombaro di nuvole dell'immaginario e di un formicolante pre-conscio, narrativo ed insieme poetico. Perché, come capita in questa bella rassegna parigina para-cronologica e musicale, senza troppa zavorra documental-filologica, per lasciar.megho staccare da terra questi aerostati in forma di tela, a materializzarsi sono come dei frammenti vaganti d'una lunga trama di stoffa interiore, che ogni tanto l'immaginario febee di Mirò «stacca» e confeziona. E non importa che le tele debbano essere immensi tappezzamenti celesti, slacciati da ogni gomena della realtà, oppure piccoh frammenti di juta, scritta dalla sua febbrile grafia onirica, senza indossare mai la museruola soffocante del Surrealismo. No, non ci sono rapporti di valore e tabeUe di tonalità, in questo suo viaggiare libero e notturno, quietamente ventoso e sempre cordiale (quale lezione per i nostri astrattisti respiranti e antigeometrici, i Licini e i Soldati, i Melotti e i Novelli!). Così come non ci sono gerarchie di arti alte o minori, nobili od apphcate. E se non sapessimo come vanno le cose delle arti, e le leggi inesorabili del far mostre, potremmo anche sceghere la via della benevolenza e pensare che Como abbia pensato di partire proprio là dove finiva Parigi, mostrando intanto e soprattutto l'ultimo periodo del maestro di Barcellona, queho più lirico e «scritto» (su cui curiosamente il Pompidou un po' troppo sorvola). Ma poi in particolare, Como, la città della seta, abbonda festosa in ceramiche, arazzi, affiches e tessuti (ovviamente molto più facili da ottenere) però non è il caso questa volta di storcere il naso, perché Mirò è grande («fare questa serie come d'un sol fiato») ogni volta che il suo polso-mentale si piega a sfiorare una superficie, una qualsivoglia «stoffa», sforbiciata daU'inesauribile pezza della sua fantasia. Ecco: chissà perché già dire «sforbiciato» suona termine troppo rude e violento, per quella sua lievità gentile e parigina. Talvolta ci si può domandare, sbagliando, come un artista così aereo e sopraceleste possa fuoriuscire dalla tradizione scura e penitenziale dei Cervantes, degh El Greco, di Goya, insomma essere spagnolo. Ma è un errore, ovviamente, intanto perché Mirò sta piuttosto dalla parte cristallina dei Fedro Salinas, degh Azorin, dei Planetts e di Lorca e d'un musicista disincarnato come Mompou, poi non dimentichiamo quanta ferocia gongoresca ci sia pure in lui, anti-franchista ed anarcheggiante. E non solo nei suoi primi, feroci, ritratti di famigha, «crudele opera di dissezione», quasi cubisteggiante, per dirla con lo studioso Roland Penrose (amico di Picasso, da cui Mirò si sentiva talvolta distaccato e polemico). Anche in certe sue partiture astratte, burrascose e martellate (ma lui non ama la parola astratto e prende le distanze dal «concreto», diciamo così «pelato», di Arp e Brancusi) per esempio la Ballerina che ascolta l'organo in una cattedrale gotica, o Gente nella notte guidata dalle tracce fosforescenti delle lu¬ mache, l'Interno Olandese I (che è un ovvio sfottò al gelido neo-plasticismo di Mondnan, ritornando verso le stanze musicah di Steen e von Ostade, ma popolandole di bruchi alla Bosch) oppure la ScaZa della fuga, così poco alla Klee, ci si rende conto che l'ispanità di Mirò risale molto più a monte degh scurori di Zurbaran e Velàzquez. Verso le tracce prestoriche deUe sculture iberiche od i resti dell'arte romanica catalana, tanto amata. E così si spiegano le anatomie pohocchiute, i «capitipèdes», ovvero le sue teste pluri-piedate, le almanaccate «mitologie» della sua calligrafia celeste. Unico precetto «queho di Jarry, che si sia in queste tele un grande humour e grande poesia». A Parigi e a Como si celebra il genio del maestro catalano dalla pittura aerea e celeste che resiste all'usura del tempo molto più di altri «moderni» La siesta di Mirò è uno dei quadri in esposizione al Centre Pompidou di Parigi Joan Mirò. La nascita del mondo Parigi. Pompidou Fino al 28 giugno Mirò. Alchimista del segno Como. Villa Cedri Fino al 6 giugno
Luoghi citati: Barcellona, Chagah, Como, Parigi
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