«Non vendetta ma pace per i nostri figli uccisi»

«Non vendetta ma pace per i nostri figli uccisi» UN PADRE ISRAELIANO E UNO PALESTINESE RACCONTANO IL LORO MEDIO ORIENTE «Non vendetta ma pace per i nostri figli uccisi» Sono 500 i genitori iscritti all'associazione «Parents Circles» «Vogliamo dimostrare ai politici che un dialogo è possibile» incontro Francesca Pad ■ LI ISRAELIANO Aaron Barnea e il palestinese Ibrahim Halli salgono in cattedra per raccontare agli studenti del liceo Alfieri cosa li accomuna. La cronaca dal Medio Oriente aggiorna la conta dei morti (venti negli ultimi tre giorni), ricordando quotidianamente quanto divide i due popoli in lotta per lo stesso territorio, grande come il Piemonte. Eppure, mentre la politica erge muri, piccoli gruppi di cittadini tessono la trama del dialogo. Mille refusenik, i riservisti dell'esercito d'Israele che rifiutano il servizio nei Territori Occupati. Le amministrazioni di Haifa e Gaza, città sulla carta avversarie gemellate con Torino. Aaron, Ibrahim e altri 500 genitori iscritti all'associazione «Parents Circle» e accomunati dal lutto. Entrambi hanno perso un figlio nella guerra civile iniziata mezzo secolo fa e intensificatasi dal 2001, con l'esplosione della seconda Intifada. Tutti i membri del «Parents Circle» condividono la medesima sorte. In dieci anni hanno sepolto centinaia di giovani. Ragazzi simili ai liceali seduti qui, jeans, felpe colorate, gli zainetti accatastati in un angolo dell'aula al secondo piano. I due padri, invitati dal Politecnico, dall'Università di Torino e da quella del Piemonte Orientale a presentare l'attività dell'associazione, iniziano a parlare della loro esperienza e la seconda B ammutolisce. Quarantotto occhi attenti e neppure un accenno di sonnolenza. La presenza del professor Giulio Caligara non c'entra: la storia e la filosofia stavolta sono materia viva. Naom Barnea aveva 21 anni e una spilletta del movimento pacifista appuntata sulla divisa quando è saltato su una bomba di Hezbollah, il partito dei guerriglieri libanesi. Era il 12 maggio 1999, ancora una settimana e avrebbe terminato la leva. Yazan Halli è morto a quindici anni dopo essere stato investito da ima vettura guidata da un colono, otto mesi fa. Poteva salvarsi forse, se l'ambulanza non fosse stata trattenuta dai soldati al check point. Gli occhi attenti della platea tradiscono la commozione. Non conoscono molto del conflitto in Terra Santa al di là degli scontri descritti dai tiggì. Perché si combatte?, domanda Aaron Barnea. Sentite Erika: «Perché la convivenza di culture differenti provoca frizioni». Maddalena: «Perché c'è uno spazio piccolo e ognuno rivendica la sua indipendenza». Maria Chiara: «Sappiamo che i due popoli non vanno d'accordo ma i media spiegano poco e in maniera non sempre attendibile». Nessuno, per esempio, aveva mai sentito nominare il «Parents Circle». Fanno notizia le ragioni dell'uno o dell'altro contendente, gli attentati, i tentativi diplomatici di portare al tavolo delle trattative la spartizione del territorio disseminato di tombe. Perché si combatte? Studenti e studentesse seguono muti come davanti a un film. I loro problemi quotidiani sono appuntati sul calendario delle Assicurazioni Generali, il test di biologia, l'interrogazione d'italiano, il recupero di latino e greco. La guerra è lontana, anche se gli adulti non parlano d'altro e sul piccolo schermo muoiono coetanei che vorrebbero vivere. Aaron ed Ibrahim sono in cattedra, potevano indossare le rispettive uniformi e cedere alla vendetta delle fazioni. Da un lato l'abitudine alla paura del kamikaze nascosto sul bus, in pizzeria, al mercato. Dall'altro l'occupazione che priva il popolo palestinese dell'identità: Ibrahim Halil è arrivato a Torino un giorno dopo il collega Aaron, bloccato alla frontiera tedesca a dimostrare una nazionalità senza nazione. I due, invece, hanno scelto un'altra strada. L'unica possibile, ritengono, per arrivare a due stati per due popoli: «La spirale della violenza deve essere spezzata. Se riusciamo a dialogare noi, con il nostro lutto personale, perché non i politici?». II «Parents Circle» lavora sul territorio. Incontri con le scuole, come qui a Torino. Campagne informative. Una linea telefonica a disposizione di cittadini israeliani e palestinesi che vogliono parlare rimanendo anonimi. Fraternizzare con il nemico è un'infamia che si paga nel migliore dei casi con l'isolamento. Ma nell'ultimo anno e mezzo la segreteria di «Hallo Shalom, hallo Salam» ha registrato un milione e 400 mila minuti di conversazione. Funzionerà? Aaron Barnea e Ibrahim Halil garantiscono agli studenti dell'Alfieri che il segreto è portare l'opinione pubblica dalle barricate al dialogo. In Iraele, in Palestina, in Italia. IBRAHIM HALIL «Il mio Yazan è morto a 15 anni dopo essere stato investito dall'auto di un colono: forse poteva salvarsi ma l'ambulanza è stata fermata al check point» AARON BARNEA «Naom aveva 21 anni quando è saltato su una bomba Hezbollah Era il 12 dicembre'99: ancora una settimana e avrebbe terminato il servizio di leva» L'israeliano Aaron Barnea (a sinistra) e il palestinese Ibrahim Halil ieri al liceo Alferi