La voce del popolo in versi torce il collo alla retorica di Giovanni Tesio

La voce del popolo in versi torce il collo alla retorica La voce del popolo in versi torce il collo alla retorica Giovanni Tesio LA storia del dibattito tra lingua e dialetto è piena di controversie. Ma scrivere in dialetto è stato sempre un modo per avvicinarsi alla realtà, tenersi stretti alle rughe del vero, torcere il collo alla retorica e "smascherare" ipocrisie. Il burlesco, il comico, il grottesco, la beffa, la satira, la parodia, la farsa, la grassa risata. Tutto dentro la prospettiva carnevalesca con cui"Michail Bachtin (da Rabelais a Dostoevskij) cala il gran jolly del mondo alla rovescia. Tutto bene. A patto di non dimenticare che a volte il gioco è puro pretesto: la satira del villano è un'antica tradizione che viene dal Duecento dei giullari di piazza, venandosi di autentico (e dunque di amaro) solo quando la miseria contadina riesce a muovere per virtù d'arte - i registri della disperazione. In questo senso il comico si congiunge al dialettale quasi per necessità storica. Se la lingua è il luogo della letterarietà più educata e raffinata, tocca ai dialetti esprimere la faccia nascosta della luna, attingendo all'oralità rozza e disonorata del parlar quotidiano. Contro il Rinascimento nobile ecco dunque il Controrinascimento plebeo. Contro il mondo degli eletti, il mondo degli abbietti. Contro la corte del Cortegiano l'universo dei villici. Contro i cantari cavallereschi la risata, contro l'egloga il realismo. Contro l'epica degli erranti, la comicità dei giganti o degli idioti. Contro la precettistica dello spirito, la sfida del corporale: il fiorentino Pulci (anche la Toscana ha i suoi dialetti), il pavane Ruzante, il mantovano Folengo, l'astigiano Gian Giorgio Alione. E qui salta fuori la questione fondamentale, perché nelle pieghe del dialetto la vena umoristica e comica non è che l'altra faccia della malinconia. La grande letteratura si pone sempre sul crinale di diverse tensioni e tra lingua e dialetto non è in gioco una questione soltanto di contrasto, ma anche di complementarità e congiunzione, ibridi e dosaggi che vanno di volta in volta valutati secondo tempi e tendenze. Un passaggio sicuramente fondamentale, studiato da critici come Isella e Segre, è quello milanese del Sette e Ottocento. Dalla "lingua d'oca, lingua straziata, goffa, fetente, unta, lercia, scipita, disadatta", con cui il padre Onofrio Branda liquidava il parlar plebeo, al "più puro" milanese del Parini che sonetta nel suo flauto meneghino. Il milanese del "Verzee" (ossia il verziere, l'orto, a Milano il mercato della verdura) che a partire dal Maggi arriva per direttissi¬ me strade romantiche al grande Porta, entrando nel pieno Novecento dell'espressionismo di Delio Tessa e dell'Adalgisa di Gadda. Resta l'equivoco da cui le letterature dialettali sono sempre state afflitte. Il pensiero (sbagliato) che il dialetto vada bene giusto per far ridere, per farci le battute, per dar vita al mondo minore, se è vero che qui lo strumento patisce d'una doppia remora: quella di lingua da pòco e quella di lingua buona per un registro (il comico appunto) che a sua volta fatica a far canone. I dialettali maggiori sono invece lì a dare testimonianza di una diversa verità. Il comico e il tragico non sono che le due ante dello stesso dittico, le maschere della stessa ambigua frontiera. L'umorismo è forse scongiuro, il riso è forse esorcismo. Ma la serietà è solennemente buffa e la comicità buffamente seria. Un funerale che può esser farsa e un battesimo tragedia. II passaggio di Porta è esemplare. Dal realismo parodico delle prove di traduzione dell' Inferno dantesco ("Leggevem on beli dì per noster spass/ i awentur amoros de Lanzellott; Z no gh'eva terz incomod che seccass,/ sto per dì s'avarav poduù sta biott;/ e rivand in del legg a certi pass/ ne vegneva la faccia de pancott/ e i nost oeucc se incontraven, come a dì/ perché no pomm fa istess anca mi e ti?") al catechismo da operetta di On miracol, alla satira anticlericale da Fraa Zenever e Fraa Diodàt a On funeral, ai "desgrazzi" del Bongee, alla bestemmia della "damazza" Donna Fabia Fabron de Fabrian, alla dolente indecenza della Ninetta, la "tosa de casin". Un mondo che passa al Belli dell'enorme opus dei sonetti scritti (come annotò lui stesso) in una favella da bocca a orecchio, "tutta guasta e corrotta": monumento "della" (attenzione: non "alla") plebe trasteverina e romana, come ha sottolineato a più riprese Piero GibeUini. Non è un caso che quando in pieno recupero novecentesco di suggestioni legate alle riflessioni sull'umorismo e sul comico (dal Bergson al Massarani a Pirandello), l'editore modenese Formiggini abbia ben presto incluso il Porta e il Belli nella sua collana dei "Classici del Ridere": il primo - che ebbe noie giudiziarie proprio per via della Ninetta commentato da Attilio Momigliano, il secondo da Giorgio Vigolo. Mentre nella stessa collana Tessa tenta - senza riuscirci - di mettere il capo tra Spallicci e Trilussa, si può ben dire che le strade del comico (penso agli esiti di quel metafisico che è Raffaello Baldini) non cessino nemmeno oggi di fare coi dialetti i loro giochi. Scrivere in dialetto è stato sempre un modo per avvicinarsi alla realtà, tenersi stretti alle rughe del vero, "smascherare" ipocrisie, con il burlesco e la farsa, la satira e la parodia attingendo all'oralità rozza del parlare , quotidiano. I mondi paralleli del milanese Porta e del romanesco Belli, che della plebe fece "monumento", inclusi da Formiggini nei suoi «Classici»

Luoghi citati: Milano, Toscana