I mostri educati di Domenico Gnoli
I mostri educati di Domenico Gnoli PRATO AL PEGGI UNA RETROSPETTIVA RILANCIA L'OPERA DELL'ARTISTA SNOBBATO IN VITA DALLA CRITICA I mostri educati di Domenico Gnoli Marco Vallerà CURIOSA, questa strana ed ardita gemellanza che Domenico Gnoli si trova a vivere in questa mostra di Prato. Affiancato (o contrapposto) ad un artista non meno sfortunato o profetico di lui, ma diversissimo, come Francesco Lo Savio (che ha la particolarità d'essere non meno diverso, e assai meno celebrato, del fratello Tano Festa). Ma dalla mostra non è dato capire troppo (anche perché il povero Lo Savio non ha ancora ottenuto il suo catalogo, che verrà). E dunque non si capisce se con questo tenzone si voleva qui dimostrare quanto fosse difficile esordire originalmente, in quegli anni, al di là delle scuole e tendenze. Se provare come, talvolta, gli estremi si tocchino. Oppure testimoniare quanto diverse potessero essere le strade d'emancipazione estetica, in quel contesto confuso di mode perenti (non c'è dubbio che Lo Savio, senza che gli sia mai riconosciuto, abbia anticipato molto delle più mercantili soluzioni minimal americane, e certe monocromie da pareti alla Spalletti).Ma quello che diverte è vedere come disinvoltamente e pateticamente la critica presunta d'avanguardia oggi salti sfrontatamente sul carro del vincitore, cercando di accaparrarsi questo caposaldo della modernità, come se fosse sempre stato un faro della loro costellazione. Fateci caso, non esiste quasi mai, in queste grottesche operazioni di tardivo recupero, un antologia critica, che svillaneggerebbe, con l'assenza colpevole, l'intiera categoria. Perché davvero, intomo a Gnoli, era il deserto ostile: come dimostra anche l'intellente saggio di Soutif , che deve ricorrere alla sottigliezza lucida e chiarificatrice di Argan, il filosofo, per trovare qualche punto di sostegno critico. Allora erano solo i Carluccio, i Tazzoli, e poi degli scrittori eretici come Niccolò Tucci, un poeta come De Mandiargues o imo sceneggitore come Charles Spaak, ad occuparsi di lui, già celeberrimo a Parigi e New York, corteggiato da Alfred Barr per il Metropolitan, apprezzato da Barrault e Laurence Olivier come scenografo eccentrico. E per questo in Italia lo sbeffeggiavano: era dannato, finito. Né è un caso che l'unico critico ad averlo capito era Renato Baril11, che veniva dalla fenomenologia di Anceschi e dalle lettura del Nouveau Roman. Ed aveva intuito quanto rivoluzionari e filosofici fossero questi dettagli, ebe nulla avevano a che fare con la pop art, allarmanti ed immobili, lì stregati, a parlarci non del consumismo Usa, ma dell'inautenticità del mondo e dell'assenza d'ogni senso. Tavole d'osteria private d'ogni «natura morta» e dettagli parossistici di capigliature, demodées ed imbrillantinate. Che bloccavano il respiro dello sguardo in un'imminenza allarmata, in una trappola ipnotizzante, che non riusciva nemmeno a sfogarsi nella narrazione «nuova oggettività». Metafisica senza metafisica. Come scherzava lui: «So¬ no mostri educati. Ammali che mi hanno seguito fino in salotto, in camera da letto, in bagno. Vengono solo se li chiami». Mostri-bottoni, reggipetto, asole, annegate nel silenzio della materia sorda. Che dovrebbero far dormire sogni cattivi ai soloni ridicoli della critica d'avanguardia. E invece. Astratto n. 7 del 1957 di Domenico Gnoli Domenico Gnoli Prato Centro Pece/ Orar/o; lun-ven. 12.00/21.00, sab. e dom. 10.00/19.00 Fino al 9 maggio
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