Il ricatto la linea e la fermezza

Il ricatto la linea e la fermezza Il ricatto la linea e la fermezza Lietta Tornabuoni FA un certo effetto sentir ripetere identiche, con la stessa intonazione e la stessa sicumera, frasi ed espiressioni dette e ridette, ascoltate e riascoltate oltre un quarto di secolo fa, nella primavera torbida e orribile del 1978. Esattamente come i leader politici di allora, il ministro Martino proclama «Non cederemo ai ricatti», Follini dell'Udc si impegna a «tenere il punto». LandòIfi di Alleanza Nazionale garantisce che «non vi può essere trattativa con il terrorismo», Bertinotti e Rutelli evocano la «fermezza», il «partito della fermezza», «una grande fermezza», Berlusconi assicura che il governo «non cambierà la sua linea» altrimenti «sarebbe una sconfitta, un cedimento». Sono esattamente le stesse parole impiegate nel 1978, quando, come sempre succede, i più alti proclami nascondevano trattative clandestine, per vie religiose o laiche, con l'odioso nemico che aveva rapito il presidente democristiano Aldo Moro. Come spesso accade quando ciascuno dei contendenti presume di essere più astuto e ipocrita dell'altro, trattare non servì a nulla. Tante dichiarazioni ufficiali di durezza e implacabilità adamantina ebbero un solo risultato: il cadavere di Moro ripiegato nel bagagliaio di un'automobile in una strada nel centro di Roma, quel corpo pallido senza vita abbandonato a breve distanza dalle sedi Inazionali della democrazia cristiana e del partito comunista. Meno di zero: la morte. E adesso, si ricomincia? Non è questione soltanto dei quattro italiani rapiti in Iraq: nella guerra di guerriglia i sequestri di persona sono un'abitudine, un metodo di lotta non diverso da altri. Sono l'atteggiamento e il linguaggio del governo ad allarmare: nonostante la classe politica sia del tutto cambiata rispetto al 1978, nonostante le circostanze e gli avversari siano completamente differenti, le reazioni sono identiche, come una meccanica risposta a una sollecitazione nota. Vorrà dire che corrispondono agli interessi (o alle esigenze) istituzionali più che a scopi pratici, che sono posizioni politiche più che ricerche di soluzione? Fa un certo effetto che tante fiere dichiarazioni abbiano basi così discutibili. L'Italia non ha partecipato alla guerra degli angloamericani contro l'Iraq. Ha mandato dopo la guerra le proprie truppe, come i governanti hanno mille volte ripetuto, «per un'azione pacificatrice». Ma quale azione pacificatrice si può compiere quando la guerra guerreggiata è in atto? Cosa si può fare se non cercare di non morire, in che modo si può rendersi utili se non andandosene come hanno fatto l'Onu e la Croce Rossa Intemazionale? I governanti affermano che lasciare l'Iraq vorrebbe dire tradire gli impegni presi: allora avevamo assunto impegni bellici, e non lo sapevamo? E in ogni caso sarà più importante la bella o brutta figura oppure la vita dei quattro rapiti e magari di altri italiani?

Persone citate: Aldo Moro, Berlusconi, Bertinotti, Follini, Lietta Tornabuoni, Moro, Rutelli

Luoghi citati: Iraq, Italia, Roma