ANTIGONE per sempre di Osvaldo Guerrieri

ANTIGONE per sempre ATRENT'ANNI DALL'ULTIMA RAPPRESENTAZIONE ITALIANA, TORNA L'EROINA CHE BRECHT USÒ CONTRO IL NAZISMO ANTIGONE per sempre Osvaldo Guerrieri FORMIDABILE Bertolt Brecht. Sembrava liquidato, sepolto fra i detriti di un teatro politico smarrito chissà dove, un drammaturgo inutilizzabile e forse noioso. Ma eccolo, all' improvviso, riapparire con i suoi rovelli ideologici, gli apologhi didattici, i siparietti stranianti. Questa sera, al Metastasio di Prato, Federico Tiezzi metterà in scena Antigone con l'interpretazione di Sandro Lombardi e Chiara Muti. Dopo qualche sommovimento brechtiano, che negli ultimi duetre anni ha increspato la pigra deriva della scena nazionale (una Madre Courage a Genova, un'Opera da tre soldi a Palermo), ecco arrivare il dramma che non si rappresentava da oltre trent'anni. Se n'è occupato per ultimo, nel 1972, il Gruppo della Rocca. Prima di quell'edizione, nel 1967, si era vista la spoglia ma sconvolgente messa in scena del Living Theatre, con la parte di Antigone affidata a una straordinaria Judith Malina. Prima ancora, nel 1964, c'era stato il debutto assoluto italiano proposto dal Teatro Stabile di Trieste con la regia di Fulvio Tolusso e l'interpretazione di Marisa Fabbri, che consegnò allo spettatore «un'Antigone modello», secondo la formula di Arturo Lazzari pubblicata sull'Unità all'indomani della prima. Tutto qui, come per sottolineare l'evanescenza di Brecht, ma non di Antigone, che da Sofocle in poi, e forse più di ogni altro mito classico, non ha mai smesso di interrogarci con voce ora politica, ora poetica, ora filosofica. Non è un caso che Antigone e l'idea della giustizia etica in collisione con quella istituzionale abbiano sollecitato rifacimenti e reinvenzioni tanto più fitti quanto più incerti e complessi erano gli anni in cui le rielaborazioni nascevano. Non è ancora un caso che questa eroina all'apparenza fragile torni a far sentire la sua voce offesa e ferma anche oggi, lungo molti rivoli; per esempio nel teatro del giovane Ascanio Celestini, nel recente romanzo di Paola Pitagora, nelle meditazioni di George Steiner e di Paola Montanari. E' arrivata, questa voce ambiguamente pietosa, anche nella riflessione di un giurista quale Gustavo Zagrebelsky, che, in uno studio pubblicato un paio d'anni fa dal nostro giornale, ha aperto uno squarcio interpretativo inatteso. Dice Zagrebelsky; ha ragione Antigone quando si oppone al potere di Creonte per dare sepoltura al fratello Polinice; ma ha ragione anche Creonte nell'appellarsi alla legge della polis. Può scaturire, da queste due ragioni opposte e inconciliabili, un punto d'equilibrio che npn pregiudichi niente e nessuno? Per Zagrebelsky quel punto luminoso non solo esiste, ma ha anche un nome. E' la politica; l'arte o la saggezza «di chi sa porsi al di sopra del proprio diritto o del proprio potere di governo, trascendendo sé medesimo per potere vivere insieme». Ecco, condotto alle conseguenze estreme, dove può condurci un mito che, per la sua prismatica complessità, sembra parlare ogni volta con la lingua di chi lo interroga. Antigone può assumere innumerevoli facce. Può osservarci dalla strada polverosa e luttuosa di Tebe, ma anche dal salotto borghese europeo (Anouilh), o dalla macabra staccionata di Brecht, il meno sfaccettato fra tutti i rifacitori di Sofocle, ma forse il più direttamente provocatorio, il drammaturgo che, in questo come in altri casi, utilizza il teatro per correggere l'uso distorto del potere e della storia. Brecht rielaborò la tragedia di Sofocle sulla scorta della traduzione di Hòlderlin, che il teatro tedesco non volle mai utilizzare considerandola troppo «oscura». Era la fine del '47. Il drammaturgo era tornato dall'esilio americano. In Svizze¬ ra s'era accordato con il produttore Hans Curiel per rappresentare allo Stadttheater della cittadina di Coirà il rifacimento dell'Antifone. La rielaborazione fu preparata nel giro di due mesi, tra novembre e dicembre. Brecht disse chiaro che non intendeva arrivare a una realizzazione eccezionale; voleva semplicemente fornire dei «modelli» di facile applicazione. Non a caso intitolò IZ modello per l'Antigone il libro di foto e didascalie che l'editore berlinese Weiss pubblicò nel 1955. Lo spettacolo di Coirà fu firmato dallo stesso Brecht, che per protagonista volle a tutti i costi Helene Weigel, nonostante i quarantasette anni suonati; troppi per l'eroina di Sofocle. L'esito non fu straordinario. Antigone ebbe in tutto quattro recite e in seguito le toccarono frettolose riprese. Brecht e lo scenografo Caspar Neher avevano previsto un muro semicircolare fatto di canne rosse, delimitato da quattro pali su cui erano conficcati quattro teschi di cavallo. Addossate al muro si trovavano le panche su cui sedevano gli attori non impegnati nell' azione. Quando uno di essi doveva entrare in scena, si alzava, si aggiustava la tunica e si presentava nello Spielfeld. Il vero motivo d'interesse stava però nel modo in cui Brecht mostrava i rapporti di fòrza tra i personaggi. Antigone, per esempio, nel suo agire contro le SS, nella sua irriducibile resistenza al loro disumano strapotere, appariva gravata da un'asse di legno. Quel che sembrava un impedimento, un peso, una sofferenza esaltava in realtà i momenti di maggior tensione, conferiva alle parole della fragile eroina una dignità gigantesca e temibile. Nonostante tutto, quest'opera non è mai riuscita ad entrare stabilmente nei repertori teatrali. Strano destino suo e strano destino di Brecht. Sembra che sia necessaria un'epoca traumatizzata, o un'improvvisa accelerazione della storia, perché questo autore prolifico e cinico acquisti un carattere d'urgenza o addirittura di obbligatorietà. Negli anni 80, quando era diventata massima la distanza tra noi e lui, ci fu un attore del Gruppo della Rocca (Bob Marchese) che si rammaricò; «L'abbiamo messo da parte ingiustamente. Abbiamo ancora bisogno di lui». Chi poteva dargli ragione, se non un nostalgico? Gli anni 80 svanirono e il clima cambiò. Oggi vediamo quel che ci esplode intomo e significativamente ci imbattiamo nella presenza di Brecht, con quel suo inesauribile discorso contro la sopraffazione, con l'invito a mettere la storia al posto del mito, con il grido disperato di chi ci ricorda, ben oltre la tautologia, che «un uomo è un uomo». Brecht impose a Sofocle un prologo col quale cercava il senso storico della tragedia. Voleva distruggere il mito dell' evento fatale e sostituirlo con i concreti conflitti umani. Voleva dare un nome chiaro all'epoca in cui «molto c'è di tremendo, ma nulla più tremendo dell'uomo». Che la metafora barbarica di Antigone sia quasi inseparabile dalla nostra sostanza lo desumiamo da un appunto del Diario di lavoro. Il 5 gennaio 1948, Brecht annotava; «Nell'Antigone la violenza viene ormai spiegata partendo dall'incapacità. La guerra contro Argo deriva dal malgoverno di Tebe. Coloro che vengono derubati sono costretti a loro volta a derubare. L'impresa va oltre le forze. La violenza invece di tenere unite le forze le divide; l'elemento umano primitivo, troppo compresso, esplode. E disintegra il tutto e l'annienta». Profetico? Da Sofocle a Zagrebelsky la modernità di un personaggio simbolo della giustizia che sembra parlare la stessa lingua di chi lo interroga «Coloro che vengono derubati sono costretti a loro volta a derubare. La violenza più che unire le forze le divide; l'elemento umano, troppo compresso, disintegra il tutto» Chiara Muti e Sandro Lombardi nello spettacolo Z.V\ntZgone di Sofocle che Brecht mise in scena nel 1948 Bertolt Brecht

Luoghi citati: Genova, Palermo, Trieste