DEMOCRAZIA L'arma vincente nello zaino dei marines

DEMOCRAZIA L'arma vincente nello zaino dei marines L'EX SEGRETARIO DI STATO KISSINGER: DALLA CRISI IRACHENA UNA LEZIONE PREZIOSA PER LA DIPLOMAZIA USA DEMOCRAZIA L'arma vincente nello zaino dei marines analisi Henry Klssingér CIQ'che caratterizza maggiormente questo secolo non è tanto l'emergere di nuovi centri di potere come l'India e la Cina; è già successo, anche se non in misura planetaria. Né il fatto che alcuni stati stiano perdendo del tutto o in parte il controllo del territorio. La peculiarità è che quando il potere statale s'indebolisce gruppi terroristici extrastatali riempiono il vuoto per minacciarne l'esistenza. La sfida non è semplicemente ristabilire il sistema intemazionale, ma prevenire vuoti di potere che, come buchi neri, attirano i nichilisti intenzionati a sovvertire l'ordine costituito. Almeno dai tempi di Woodrow Wilson gh Stati Uniti hanno una propria definizione dell'ordine intemazionale: l'idea che le guerre siano provocate non tanto da interessi contrastanti quanto da istituzioni nazionali poco rappresentative. Nell'ottica di Wilson la pohtica estera si basa sugli interessi nazionali e il potere statale prevale quando le istituzioni democratiche hanno fallito. Poiché le democrazie regolano le controversie con il ragionamento e non con il conflitto, diffondere la democrazie è, in questa linea di pensiero, l'autentica missione dell'America e il cambio di regime ne è la suprema sanzione. La convinzione che l'equilibrio intemo sia il fondamento della pace intemazionale non è nuova. Fu la base della Santa "alleanza dopo le'guerre napoleoniche. Si credeva però che i sistemi monarchici fossero i migliori garanti della stabilità internazionale perché prescindevano dai capricci di una pubblica opinione ondivaga. E i celpi di stato dinastici erano ritenuti più affidabili perché non avevano bisogno di conquistare il potere. Benché queste premesse non fossero appoggiate da un esame obiettivo dei successi della diplomazia nel 18" secolo, portarono a interventi per produrre cambi di regime a Napoli nel 1821 e in Spagna nel 1823. Lo sforzo di universalizzare i governi autoritari in ultimo fallì perché gh interessi nazionah di due membri della Santa alleanza, Austria e Russia, furono sconfitti nei Balcani e la Gran Bretagna rifiutò il preteso diritto d'intervento universale. Le corrente dottrina della democratizzazione globale incontra ostacoli simili, anche se parte da basi concettuali più sohde. Il postulato - non del tutto dimostrato perché non ci sono abbastanza democrazie per verificarlo - è l'intrinseca armonia dei governi democratici. (In Europa l'attuale pacifismo è in parte rigetto per le guerre del XX secolo). Per l'America la fede nel valore morale della democrazia è tema fondamentale in una società fondata sull'immigrazione. Deve difendere i valori democratici se la sua pohtica estera vuole avere il duraturo supporto del suo popolo. Il problema è come applicarli. Né una pohtica basata sull'interesse nazionale connotata soprattutto in termini di sicurezza si dimostrerebbe praticabile. Il potere è un amalgama di volontà e capacità, il chelo rende forse il fattore più elusivo delle relazioni intemazionali. Una pohtica fondata sul solo interesse richiede perfetta flessibilità e massima prontezza neh'adattarsi al mutare delle circostanze. Questo è sempre stato difficile e lo è sempre di più per il combinarsi di complicazioni burocratiche, pressioni pubbliche contrastanti e del ruolo sempre più determinante di protagonisti extrastatah, siano favorevoli od ostili. Ecco perché il massimo interprete della Realpolitik del 190 secolo, Otto von Bismarck, ebbe a dire - e l'arte del governare allora era assai meno complessa - che il meglio che uno statista potesse fare era ascoltare i passi di Dio e adeguare a quelli il suo cammino, così da fare un pezzo di strada insieme. E pure così la Realpolitik di Bismarck si rivelò troppo complessa. Poiché non nasce un genio a ogni generazione, i suoi successori non ottennero la pace perpetua ma rigide alleanze che infine scatenarono una guerra mondiale. Detto questo, che cosa significa oggi dare supporto alla democrazia in pohtica estera? Come possono gh Stati Uniti promuovere questo genere di diplomazia di fronte a ima diffusa critica internazionale che ci imputa allo stesso tempo potere egemonico e spirito di crociata? L'America è impegnata in un'ampia gamma di attività nel nome della democrazia e dei diritti umani. Pubblica ogni anno resoconti sul rispetto di questi ultimi in ogni stato del pianeta; esprime pubblicamente pareri in merito; applica le sanzioni raccomandate dal Congresso; è intervenuta in Bosnia e Kosovo essenzialmente per motivi di rispetto dei diritti umani e ha invaso l'Iraq anche per arrivare a un cambio di regime. Nessun altro Paese ha messo con altrettanto impegno queste questioni al centro delle proprie attività o ha permesso un intervento così diretto di una parte preponderante della sua opinione pùbblica su temi tanto specifici della sua pohtica estera. Ma gh Stati Uniti hanno la capacità di raggiungere i loro obiettivi e se sì, quanto in fretta? La democrazia nel mondo occidentale si è evoluta con il tempo. La chiesa cattolica, per quanto difficilmente si possa dire democratica al suo intemo, ha contribuito al suo emergere insistendo sulla separazione fra autorità imperiale e divina, primo, essenziale passo verso una concezione pluralistica del governo. Secoli più tardi la Riforma ha istituzionahzzato il pluralismo religioso, e in un certo senso anche quello pohtico, esaltando il ruolo della coscienza individuale. L'Illuminismo ha fatto il passo successivo insistendo su un'analisi basata sulla ragione. L'era delle grandi esplorazioni ha allargato gh orizzonti. Il capitalismo ha fatto dell'iniziativa individuale il motore del successo economico. I concetti di istituzioni rappresentative, separazione dei poteri e sistema di controllo si sono evoluti da una ricca tradizione. Nessun'altra cultura ha fatto qualcosa di simile. Le società islamiche raramente hanno separato chiesa e stato e non hanno mai concesso un'interpretazione pluralistica della giustizia. Nella maggior parte delle società di impronta confuciana né gh enti religiosi né quelli extragovemati- vi hanno mai avuto la legittimità o l'autonomia per sfidare l'autorità se non ribellandosi. Dire che la democrazia ha dei prerequisiti non significa negare che si possa apphcare ad altri tipi di società, ma solo capire che comprimere l'evoluzione di secoli in un tempo troppo breve può scatenare conseguenze inaspettate. Là dove le società sono divise dalla fede o dalle etnie si corre il rischio di perpetuare un'assegnazione del potere basata su quei presupposti. Là dove le minoranze non hanno possibilità di diven- tare maggioranza le elezioni possono portare alla guerra qivile o al caos - terreni di coltura ideali per il terrorismo. Poiché la democrazia deve essere radicata nella realtà locale, funzionerà solo in presenza di un certo retroterra culturale, storico e istituzionale. Ecco perché il tentativo di imporre le istituzioni di tipo occidentale altrove riesce raramente senza una lunga tutela. Nei Balcani ha prodotto tre protettorati - in Bosnia, in Kosovo e in Macedonia - completamente dipendenti da forze esteme. E la ricostruzione dell'Iraq implica la necessità di un lungo protettorato americano. Erano operazioni necessarie, ma denunciano i loro stessi limiti. Il cambio di regime è un caso speciale; non può essere il principale esercizio del potere militare americano. Devono essere stabilite delle priorità: una pohtica estera che promuove la democrazia deve essere adattata alle realtà locali, o è destinata a fallire. Anche in questo caso la politica è l'arte del possibile. Un assunto respinto da chi considera la democratizzazione in se stessa un fine. Ma gh slogan non fanno la pohtica estera. Quando gli Stati Uniti giocano un ruolo fondamentale nella distruzione dell'esistente, come in Iran nel 1979 e in Indonesia nel 1998, e a maggior ragione quando si va in guerra per cambiare un regime, bisogna tenere presenti alcuni principi. Le democratizzazioni più riuscite dell'ultimo cinquantennio, in Corea, Taiwan e Turchia, erano fondate sulla crescita di una classe media che, con qualche aiuto dall'America, ha chiesto con decisione un sistema rappresentativo. Quando il processo si innesta sul vuoto pohtico il risultato rischia di essere il caos o un regime nemico dei nostri valori e probabilmente della nostra sicurezza. L'Iraq sta diventando un banco di prova. Il cambio' di regime era spinto da imperativi strategici e convinzioni morah. Ma il caso è ben diverso dall'occupazione del Giappone e della Germania dopo la U guerra mondiale. In quei Paesi la popolazione collaborava; non vi era alternativa alla riforma democratica, anzi collaborare era l'unico mezzo per riguadagnare legittimità e controllo sui destini nazionah. In Iraq accade precisamente il caso contrario. La creazione di un'autorità di governo il prossimo 10 luglio è il primo, piccolo passo sulla lunga strada verso la stabilità. Il controllo americano sul lungo periodo è necessario così come un certo grado di coinvolgimento intemazionale. Ma ciò che è determinante è la volontà dell'America di farcela: il successo è l'unica strategia. L'ingegneria istituzionale richiede non solo una dottrina ma anche una visione appropriata. Questo richiede un'umiltà che non significa abdicare ai valori americani: anzi è l'unica via per affermarh. Copyright Tribune Media Services International Il problema consiste nel fatto che nessuna altra cultura al di fuori di quella occidentale ha conosciuto lo stesso sviluppo intorno alla sovranità popolare E' l'equilibrio interno la vera base della stabilità internazionale Quando il potere statale si indebolisce i gruppi terroristici riempiono il vuoto per impadronirsene Un guerrigliero palestinese di Al Fatah armato di kalashnikov accanto a un grande ritratto dell'ex dittatore iracheno Saddam Hussein

Persone citate: Fatah, Henry Klssingér, Saddam Hussein, Woodrow Wilson