L'enigma della Passione di Elena Loewenthal

L'enigma della Passione L'enigma della Passione Elena Loewenthal BUIO fu, quel giorno, non per una contingente sovrapposizione di corpi celesti ma perché così il cosmo aveva deciso: "Un dice che la luna si ritorse ne la passion di Cristo e s'interpuose,/ per che '1 lume del sol giù non si porse;/ e mente, che la luce si nascose da sé". Così Dante (Paradiso XXIX, 28) disegna l'oscurarsi del mondo quando Gesù fu messo in croce: un'eclissi esistenziale della luce che fa precipitare la passione dentro una tenebra impenetrabile quanto l'enigma del giusto sofferente. Se questa figura è infatti l'eterno punto interrogativo della fede, il paradosso di ogni storia sacra, la passione di Gesù è da allora il dolore per antonomasia, o se non altro quello che più si nega ad ogni spiegazione. E' scandalo puro, nella sua inammissibilità. Per questo, ogni tentativo di caricare di scandalo tale sequenza di immagini e parole rischia di sortire l'effetto opposto, quello cioè di neutralizzarne la grandezza. C'è dunque da domandarsi se sia tale anche il destino del film di Mei Gibson, con il suo titolo laconico, le sue tinte forti, l'esuberanza di sangue e i giudizi storici trancianti. L'imprudenza del regista sta forse proprio nella velleità di rendere sensazionale una storia che lo è già di per sé in misura immensa, anche quando la si ripete con un filo appena di voce. Che sia, poi, una storia dai chiaroscuri netti, è cosa di sempre. A commeiare dalla notte in cui Gesù viene al mondo: "E come se fosse l'ora sesta del giorno, così la luce divina illuminò la spelonca; né questa luce divina venne meno di giorno o di notte, per tutto il tempo che Maria vi rimase", narra il Vangelo apocrifo della Natività. La prima ombra che il bambino getta in terra, invece, è quando sorridendo piega una palma per far sì che sua madre ne possa raccoghere i frutti succosi, e il disegno che l'albero imprime sul suolo con il favore del sole ha sapore di una "gran dolcezza". Tutta la tradizione gnostica, del resto, quella lettura razionale ma anche estatica dei fondamenti cristiani tramandata negh ambienti intellettuali di Alessandria dEgitto durante il secondo secolo, si fonda sulla contrapposizione fra la luce e il buio. Ffa ciò che giunge prepotentemente all'occhio e a tutti i sensi, e ciò che è negato anche all'intuito più profondo. A questa tradizione si deve un corpus di testi narrativi su Gesù, parte della cosiddetta 'biblioteca gnostica", in lingua copta, scoperta nel 1945 presso il villaggio di Nag Hammadi, nell'Alto Egitto. "Dio è un tintore - è detto nel vangelo di Filippo -. Come le buone tinture, che si dicono genuine, muoiono con le cose che sono state tinte con esse, così è con le cose tinte da Dio". Nel suo complesso, la letteratura degh apocrifi neotestamentari è un vasto insieme di testi e frammenti - o anche solo citazioni da libri perduti, riportate dai padri della Chiesa - dentro il quale si incontra un Gesù assai sfaccettato, extra-canonico ma non per questo urtante. Anzi. L'intensità di questi racconti non è certo data dagli effetti speciah di cui il cinema dispone (anche soltanto per prepotenza di suoni e tinte), piuttosto da una liberalità narrativa che lascia-immaginare un pubblico di lettori e ascoltatori aperto, capace di farsi travolgere da una com-passione che non pretende di capire né di spiegare. Nel variegato ciclo della Natività e dell'Infanzia di Gesù - oltre che di sua madre Maria -prendono corpo quegli anni che nei Vangeli sinottici sono quasi una muta parentesi fra la venuta al mondo del bambino e la sua comparsa al tempio, ad ascoltare e interrogare i dottori. Nel bellissimo vangelo arabo dell'infanzia (che ha per archetipo un probabile originale in siriano). Gesù ragazzetto arrivò a un sicomoro "che oggi si chiama Matarieh, fece sgorgare una polla, e la signora Maria vi lavò la camiciola di lui. Dal sudore del signore Gesù che ella vi sparse, venne fuori in quella regione il balsamo". Poco dopo - ha ora sette anni - giocando con l'argilla insieme ad altri "fanciulli deUa sua stessa età", dà la vita a figurine di "asini, di buoi, di uccelli e di altri animah". Nei cich successivi Gesù è figura non meno vivida, spesso presentato come un taumaturgo dai poteri fenomenah: nel vangelo eh Bartolomeo dice così di sé: "Bartolomeo, mio Padre mi ha chiamato Cristo perché io dovevo venire in terra e ungere ogni uomo che venisse a me con l'olio della vita, mi ha chiamato Gesù perché dovevo risanare ogni peccato". Anche la scarna tradizione ebraica tardoantica e medievale intomo a Gesù lo presenta come un mago, quando non un illusionista. I suoi poteri di guaritore destano particolare sospetto perché provocatoriamente agiscono nel giorno di sabato, il riposo d'Israele. Qui e nei vangeli extracanonici, fanno la loro comparsa personaggi altrove taciuti, come Giacomo, il fratello che Gesù salva dal morso della vipera; ma emergono anche risvolti inediti di Gesù stesso, come quando lo si vede impartire ai discepoh la medicina e l'astronomia. Redentore taciturno che desta scompiglio con la sua teoria di miracoli è invece il Cristo di un'epopea sacra davvero strabihante. L'ha scritta Borislav Pekic, narratore montenegrino vissuto a lungo in Gran Bretagna, dove è mancato nel 1992. Il tempo dei miracoli è ora tradotto in italiano dal serbo-croato (nel pregevole lavoro di Alice Parmeggiani Dri), per l'editore Fanucci (pp. 395, e 15). Pekic ha trascorso quindici anni di carcere duro, in quanto membro del partito illegale della Gioventù Democratica Jugoslava, finché non ha avuto la grazia, nel 1953. In cella aveva "soltanto" una Bibbia. Da tale forzata, esclusiva frequentazione, scaturisce come un geyser a volte boUente a volte ghiacciato, questo romanzo. Lazzaro che resuscita a stento, "eccolo che goffamente usciva fuori carponi, m modo indicìbilmente ridicolo e triste, clownescamente impaccia- to, che strisciava a quattro zampe, dopo essersi stiracchiato e dimenato, tossicchiando, smoccolando e sputacchiando". Egla la giovane lebbrosa che si è rifatta una vita e una volta guarita sconterà pene non sue. Manipoli di miracolati loro malgrado. Pevic disegna un Gesù profondamente nuovo e sorprendente, ma in fondo ancorato a quella lunga tradizione che ne racconta il paradosso di Dio in terra e uomo in cielo: "io non so mai che cosa sono, finché, dopo aver compiuto qualche miracolo, non mi riapproprio della mia natura divina, se ero stato temporaneamente uomo, o, provando dolore, non mi accerto della mia natura umana, se ero stato provvisoriamente Dio". La voce del Redentore, in questo libro, è come alienata, incrinata da una specie di smarrimento; i suoi poveri di spirito sono degh emarginati che tah resteranno e cui l'autore riserva una pietas nuda, senza orpelli retorici o melensi, una partecipazione indignata dall'ingiustizia e dall'ipocrisia, capace di guardare là dove per lo più si ignora. Parlano tutti fuori dai denti, questi uomini e donne su cui Gesù scagha i propri prodigi, indifferente alle conseguenze che ne verranno: sono vittime, lucidamente consapevoli di esserlo. Pevic racconta con un talento affabulatorio paraboheo e un'ispirazione che scotta ancor di più al contatto con la trama della storia sacra. Per questo ed altro il suo romanzo si iscrive idealmente nella letteratura apocrifa neotestamentaria. Apocrifo, beninteso, non significa affatto "eretico" o "proibito", come spesso viene intesa questa parola, con segno negativo. Sta invece per "nascosto", "segreto", e indica una tradizione sommessa, marginale ma non per questo meno viva ed edificante. A volte audace nel suo interrogare la parola divina, perché il confine fra la devozione e rirriverenza è il più delle volte inafferrabile, e quanta maggior consuetudine si ha con la storia sacra, tanto più irresistibile è la chiamata alla sfida che essa pone. L'enigma della Passione

Luoghi citati: Alessandria, Alto Egitto, Gran Bretagna, Israele