«Sono curiosi del mio hijab e imparano la tolleranza»

«Sono curiosi del mio hijab e imparano la tolleranza» LA TESTIMONIANZA DI UN'INSEGNANTE MAROCCHINA «Sono curiosi del mio hijab e imparano la tolleranza» Malika: «Gli alunni mi fanno scherzi e si divertono come pazzi Nessuno in classe si è mai spaventato per il mio aspetto» la storia IL velo islamico per i bambini itahani? Un oscuro oggetto di curiosità che alimenta indovinelli e giochi innocenti. «Cosa vinco, maestra, se capisco il colore dei capelli nascosti?». «Te li mostro, purché resti un segreto tra noi». Malika Ghazoui lavora come mediatrice culturale negli asili e nelle scuole materne della provincia di Torino. A Casablanca, dove fino a sei anni fa insegnava storia nell'istituto medio-superiore diretto da suo marito, indossava r«hijab», perché «per una donna musulmana è un dovere». Almeno in pubblico e davanti ad uomini adulti. In Italia ha continuato. Sopra ai jeans, con gli abiti più eleganti, nelle occasioni mondane e in classe con i suoi allievi. «I genitori talvolta storcono il naso, i figli mai». La storia di Fatima rifiutata dall'asilo di Samone per il suo abbigliamento è di quelle che colpiscono gli immigrati come Malika. In equilibrio precario tra il desiderio d'essere accettati e la paura di perdere l'identità nella ricerca del consenso esterno. Un'inchiesta del settimanale inglese «The Economist» nella cittadina francese di Auberville, dove a ottobre del 2003 le sorelle Lila e Alma Lévy-Omari sono state espulse dal liceo Henry Wallon per aver rifiutato di togliere il velo, racconta il mondo degli adolescenti musulmani che indossano scarpe Nike e utilizzano cellulari supertecnologici, ma recuperano la peculiarità etnica accantonata dai genitori come segno distintivo della propria comunità. Malika Ghazoiu non ci tiene affatto a distinguersi. Ha scelto il nostro Paese, perché le garantiva le tutele sociali negate in patria. Malgrado la recente apertura alle donne concessa dal nuovo codice di famiglia approvato dal re Mohammed VI. Sua figlia dodicenne Soukaina è una dolcissima bambina down: «Sapete come li chiamano in Marocco gli infelici come la mia piccina? Matti. Non ci sono scuole per loro, non c'è futuro». Così, la mamma-maestra e il babbo-preside, giovani nposi con una vita normale a Casablanca, hanno impacchettato le loro certezze per offrire a Soukaina almeno una possibihtà. Com'è andata a finire? Che uno dopo l'altro sono arrivati gli altri cinque figli, Soukaina frequenta la prima media in una classe di bambini torinesi, cinesi, filippini, Malika con il foulard insegna mediazione culturale a ragazzini dell'età dei suoi. «Cosa dicono dell'hijab i miei alunni? Fanno scherzi, fingono di tirarmelo via dal capo, si divertono come pazzi». Curiosità infantile e attenta esplorazione dell'altro. Malika si presta complice al gioco della conoscenza, controlla che non ci siano uomini adulti in giro, raduna intomo a sé i piccoli spettatori e scioghe i lunghissimi capelli neri, strappando applausi e ovazioni. Il velo islamico per loro è come un abito vistoso, un cappello variopinto, un pappagallo che sa dire buongiorno, un semplice accessorio nel mondo grande e terribile che scoprono giorno dopo giorno. Nessuno ha mai chiesto a Malika di rinunciare al foulard. Certamente non gli studenti di Torino, Torre Pellice, Lusema, Saluzzo, Pinerolo. Né i fratelli minori degli asili nido. Lei comunque, non l'avrebbe tolto. «I veri musulmani siete voi itahani», osserva Rachida Hamdi, 32 anni, marocchina, lettrice al dipartimento d'Orientahstica dell'Università di Torino, dove insegna con r«hijab». Ecco il suo ragionamento: «Per me che sono credente, la parola del Profeta Maometto significa tolleranza, apertura al diverso, altruismo. Tutto quello che trovo qui e manca invece nel mio Paese». Nonostante il nido «Miele Cri Cri» di Samone. Un caso, certamente. E finito bene. Fatima, Rachida, Malika. Donne che portano la loro esperienza nelle scuole materne e negli atenei italiani sempre più affollati di studenti stranieri. Con il velo indossano l'orgoglio della loro religione senza le rivendicazioni antagoniste delle militanti assetati di guerra santa e sono pronte a dialogare con una politica più tollerante di quella che hanno lasciato a casa. Possono dissentire magari dalle scelte istituzionali, ma è già una conquista che ritengono preziosa. Malika Ghazoui ha fondato a Torino l'associazione per disabili «Portatori d'handicap senza frontiere» per aiutare i bambini, come la figlia Soukaina, ad affrontare «i veri mostri, non quelli fittizzi prodotti dalla paura e dal razzismo». L'altro figlio, Mohammed Ismail, di IO anni, ha appena finito di girare un film diretto da Stefano Reale. S'intitola «Il tramite» e racconta i fantasmi dei bambini costretti a emigrare. I suoi allievi itahani la guardano correre da un'aula all'altra a passi svelti, con la coda del foulard che oscilla ad ogni movimento. Curiosi, interrogativi, divertiti. Spaventati mai. [fra.pa.j «Sono venuta in Italia con mio marito perché a Casablanca era impossibile dare un'educazione a mia figlia Soukaina che è Down»