«La nostra ricostruzione è stata cancellata in poche ore»

«La nostra ricostruzione è stata cancellata in poche ore» IL RACCONTO DI CHI HA PARTECIPATO ALLA MISSIONE ONU NELLA REGIONE «La nostra ricostruzione è stata cancellata in poche ore» «Sono andati in fumo anni di duro lavoro per rendere possibile una convivenza tra le due etnie» testimonianza Monica Ellena* 9 Miloi UANDO scesero dall'autobus che li riportò a Grabac, Tanja e Milòmir si abbracciarono e piansero. Come tutti i serbi della municipalità di Klina, nel Kosovo occidentale, avevano lasciato il villaggio nel giugno 1999, quando, terminata la guerra, la forza multinazionale di pace della Kfor entrò nella regione. Troppa la paura delle rappresaghe dell' Uck, la guerriglia albanese. Scapparono. Quel 10 settembre 2002 fu per loro una rinascita: tornavano a casa dopo oltre tre anni passati in un centro profughi in Serbia, a Kraljievo. Tanja è il prodotto tragico di una Jugoslavia che non esiste più: bosniaca, si è sposata in Croazia. Poi lo sfascio dell'alchimia multietnica di Tito, la guerra, la fuga, il rifugio tra colline isolate e allora tranquille del Kosovo, il tentativo di ricominciare. «La guerra ci ha seguito, siamo dovuti scappare di nuovo. Ora siamo tornati ed è tutto cambiato. Ma spesso mi chiedo chi sono, a dove appartengo. Io sono nata jugoslava, ma 0 mio paese non esiste più...». Il ritomo fu anche l'inizio di una nuova lotta. Con altri tredici serbi dovettero adattarsi a dormire nelle tende nell'attesa che le loro case fossero ricostruite, a vivere sotto protezione della Kfor itahana 24 ore su 24, a cucinare su una stufa a legna e mangiare tutti insieme. E soprattutto a non uscire dal villaggio. Claustrofobia, ecco cosa ho provato ogni volta che nella sicurezza dell'auto Unhcr entravo a Grabac e il vicino villaggio di Bica: oltre ai checkpoint, i soldati itahani hanno costruito un distaccamento per proteggere i settanta serbi che fino a ieri vivevano nei due villaggi. Ad occhio c'è un soldato per persona. Di lì non si esce senza scorta. Nell'(im)possihile rompicapo politico del Kosovo «assicurare il rientro sicuro e incondizionato dei profughi nelle loro case» è uno dei punti principali del mandato delle Nazioni Unite nella regione. Riconciliare e reintegrare, ecco che cosa si cerca di fare. Ma serbi e albanesi non hanno mai avuto una vita «insieme», la loro era una vita «accanto», tolleranza e forzato rispetto. Come ricreare qualcosa che non è mai esistito? Il Kosovo non è(ra) la Bosnia: lingue diverse, religioni opposte, matrimoni misti rari e nella maggior parte dei casi la parte serba era la moglie. Nei dieci anni precedenti la guerra erano i serbi a occupare i posti chiave neh' amministrazione, nelle istituzioni, nelle fabbriche. Gli albanesi avevano messo in piedi un sistema parallelo di scuole e ospedah che finanziavano con i soldi della diaspora. Per anni in Kosovo hanno convissuto due stati, lo strappo è stato totale. Ricucirlo è una scommessa che le rivolte di questi giorni hanno provato essere persa. Il processo di rientro dei profughi è lungo, intricato e doloroso. Del ritomo a Bica e Grabac si iniziò a parlare sommessamente nel 2000. Ci sono voluti due anni per far tomare le prime tredici persone. Due anni fatti di incontri infiniti; con i profughi, con gli albanesi, con le varie organizzazioni intemazionali, con la pohzia, con la Kfor. Quando rientrarono i primi profughi di Bica, nel gruppo di coordinamento eravamo ventidue di nove paesi diversi, i serbi che ritornavano erano quindici. Due anni spesi anche a recuperare i documenti per accertare la pro¬ prietà delle case, che se non sono distratte, sono occupate da famiglie albanesi. E anche quando la proprietà è accertata, cacciare gli occupanti diventa uno scogho: per evitare vendette, si deve raggiungere un accordo. A Bica e Grabac sono stati fortunati: erano tutte distratte. E intanto si cercano i fondi per ricostruire le case, riattivare la rete idrica, allacciare l'elettricità. Ogni singolo bisogno diventa un ostacolo su cui discutere e mediare: come far arrivare il pane, come gestire il rifornimento di acqua, come permettere ai serbi di raggiungere il settore serbo di Mitrovica in cui potersi muovere liberamente al di fuori del perimetro del villaggio. Dopo un anno e mezzo, Tanja era stata assunta dal comune: nfel suo primo giorno di lavoro fuori dal municipio c'erano televisioni e autorità. È stato un evento, un'euforia durata un fine settimana. Dietro a ogni casa serba ricostruita in Kosovo, dietro ogni chiacchierata tra un serbo e un albanese, ci sono mesi e mesi di lavoro, mediazione, compromessi, incontri. E tanti, tanti soldi. Quando lo scorso luglio 25 serbi tomarono a Belo Polje, alle porte di Pec, uno di loro, Michailo, disse «torniamo con le vanghe, non le armi». Le case sono state ricostruite in pochi mesi, ma con i vicini albanesi nessuno spiraglio di apertura. Ora quelle case sono state rase al suolo, gli abitanti evacuati. Loro non torneranno. Stesso destino per Bica e Grabac. Anni di lavoro sono stati spazzati via in poche ore: qualunque «cosa» serba è stata attaccata: persone, campi, case, chiese, auto. Quel Kosovo multietnico, del quale forse si dubitava, ma nel quale si credeva abbastanza da investire mesi e settimane di lavoro è andato in fiamme, come la chiesa serba di Mitrovica. Dei 130 mila serbi che scapparono nel 1999 ci sono voluti 5 anni per fame rientrare 4958 e due giorni per cacciarli un'altra volta. * Funzionario dell'Aito Commissariato delie Nazioni Unite per II ritorno degli sfollati serbi

Persone citate: Belo Polje, Bica, Monica Ellena

Luoghi citati: Croazia, Jugoslavia, Kosovo, Serbia