Tra i pellegrini del lutto e della speranza di Pierangelo Sapegno

Tra i pellegrini del lutto e della speranza UNA DRAMMATICA E COMPOSTA PROCESSIONE NEL DAY AFTER Tra i pellegrini del lutto e della speranza Negli ospedali e negli obitori, alla ricerca di un morto o di un superstite reportage Pierangelo Sapegno inviato a MADRID LI ULTIMO numero in questo elenco dell'orrore che ci consegna la tragedia di Madrid è quello di una bambina di sette mesi che i giornali avevano battezzato «la nina Patricia», quando ancora speravano che i medici la strappassero alla morte. E' il numero* 199. Ma le vittime dell'I 1 marzo sono destinate purtroppo ad aumentare: sui 1473 feriti, 400 e passa sono tenuti in osservazione e «ce ne sono 38 in condizioni disperate», avvertono i medici del Gregorio Maranon: 12 di loro sono ragazzi. La piccola era ricoverata nell'ospedale pediatrico e dal momento in cui l'avevano portata dentro a queste mura, avevano cercato invano di rintracciare i genitori. La madre lotta tra la vita e la morte in un altro ospedale. E il padre probabilmente è diventato anche lui un altro numero di quest'elenco. Hanno potuto trovare solo una zia. La nina Patricia almeno avrà un nome e un cognome neUa sua bara bianca grande come un giocattolo. Nel padiglione dell'Ifema, alla Fiera, dove hanno portato questi corpi senza vita o quel che resta di loro, dalla notte dell'11 marzo prosegue ininteirotta questa processione irreale di madri, padri, sorelle fratelli e figli, che vengono qui in lacrime con una foto in mano, lo sguardo sperduto, le gambe che tremano. «Mia sorella credo che sia qui», balbetta un uomo di trent'anni vestito con un giaccone verde come quelh dei giardinieri di Madrid. Sei ragazzi sorreggono un'amica che non ce la fa neanche a parlare: «Sua madre era nel treno». Maria cerca suo figlio Pablo, «il mio unico figho». Racconta che aveva ima lezione di matematica, dice che «è un bravo ragazzo, molto responsabile», ma è come se parlasse di un amore che diventa astratto, come se citasse un ricordo. Lascia andare gh occhi per terra e sembra che cerchi dentro se stessa la forza che nessuno le può dare. Dice; «Aveva deciso di andare. E aveva preso quel treno». E' in quel momento che è squillato il cellulare. Solo allora si è commossa. Ha chiuso il telefonino, avevamo paura di guardarla. Ma ha sorriso, tra le lacrime: «Mio figho è vivo». I giornalisti le hanno stretto la mano. Hanno spento persino le telecamere per abbracciarla, come a rispettare fino in fondo una deUe poche notizie belle di questi giorni terribili. «Devo andare», s'è scusata lei. E' tutto molto ordinato, molto composto, molto dignitoso. Non ci sono urla e strepiti, solo la potenza terribile del dolore. I giornalisti stanno dietro alle transenne di fronte all'ingresso del capannone e riprendono solo chi vuol essere ripreso. I poliziotti sorvegliano senza bisogno di intervenire. Qgni tanto qualcuno dei parenti si avvicina alle telecamere per chiedere un aiuto. Inma, di 38 anni, con due figli di 15 e 20, è sparita. Era alla stazione di Atocha alle 7 e 25. Sua cognata racconta che «fino adesso non è venuta fuori neanche una notizia. Siamo passati in tutti gh ospedali. Niente». Dovrebbe entrare dentro al capannone, ma ha paura a farlo. Dice ancora: «Dieci anni fa suo marito è morto in un incidente». Un uomo cerca sua moghe Julia di 45 anni e suo figho di 13. Carolina Derdeal racconta di quella madre che ha visto il figho senza un braccio, di un uomo che continua a svenire, «degh psicologi che fanno tutto quel che possono là dentro». Uno dei volontari della Croce Rossa spiega che molti dei corpi sono irriconoscibili. Almeno venti sono quelh carbonizzati, bruciati nell'esplosione di Sant'Eugenia: era un treno di studenti. Altri sono pezzi da ricomporre. Bisogna prelevare il Dna anche ai parenti per ricostruire l'identità di qualche vittima. Davanti alla morte ci sono stralci di campagna elettorale, e i volti dei leader del partito popolare e del partito socialista che sorridono dai manifesti. «Merecemos ima Espana melior». E poi, accanto: «Con tu voto es posible». Da qui, sotto alla pioggia, si toma negh altri luoghi del dolore, gh ospedali, le stazioni della mattanza. AUa Puerta de Atocha, il giorno dopo è tornata una parvenza di normalità. Solo un terzo dei treni è stato cancellato. Uno entra qui dentro e gh sembra di mettere piede in un aeroporto, fra i sottopassaggi, le grandi scalinate, gh ampi corridoi molto puliti. C'è anche un giardino esotico. In qualche posto, davanti a una vetrata, sotto al cartellone pubblicitario di un film, su una piazzuola, persino sulle scale, hanno improvvisato degh altari con fiori bianchi e candele rosse. La ^ente viene e posa biglietti, e dediche scritte su fogh di quaderno. La cosa che colpisce è che in tutto questo dolore non c'è mai rabbia, mai odio. Su imo c'è scritto: «Qual è la cosa più bella del mondo? El amor y la paz». Poi, tre nomi, Tamara 15 anos, Carmen 38 e Lorena 15, rimaste imprigionate nell'elenco assurdo e ombile dell'11 marzo. Le donne che vengono fanno una preghiera in silenzio e quando si alzano, parlano con i giornalisti come se fossero degh amici che danno conforto. E' tutto così irreale, con la gente che passa le barriere per andare ai treni e fa code veloci alle biglietterie, mentre i poliziotti guardano attorno senza sapere cosa guardare. E' la vita che continua. E' il 12 marzo. Inma, 38 anni, è sparita La cognata: «Non riusciamo a sapere. Il marito è morto dieci anni fa in un incidente» m Maria non trova Fabio «il mio unico figlio». Poi le squilla il cellulare: «F lui, vivo». Piange E tutti le stringono la mano

Persone citate: Gregorio Maranon, Puerta

Luoghi citati: Lorena, Madrid