PIOVENE l'occhio ossidrico di Guido Piovene

PIOVENE l'occhio ossidrico GLI ULTIMI FUOCHI DI UN INTELLETTUALE CHE, PUR PROSTRATO, SFIDO LE IDEE «RANCIDE» DEI CONTEMPORANEI. E RACCONTÒ LA SUA MORTE PIOVENE l'occhio ossidrico Enzo Bettiza CADE quest'anno il trentesimo anniversario della morte di Guido Piovane e della fondazione del Giornale di cui egli, dopo un'incisiva presenza nelle colonne della Stampa, fu il primo presidente editoriale e l'organizzatore delle pagine culturali. Il nuovo quotidiano, nato da una costola del Corriere della Sera, costola scismatica definita «l'argenteria di famiglia di Via Solferino», uscì in edicola nel giugno del 1974; Piovene, già gravemente ammalato, scomparve verso la fine dello stesso anno. Quei cinque mesi segnarono l'epoca d'oro iniziale, che poi a poco a poco svanì, di un foglio di critica e di idee che fu anche erede nelle firme e nei contenuti del patrimonio culturale del Mondo e di Tempo Presente. Quante cose non dette o non scritte in proposito. Allorché annunciai a Montanelli che il suo antico collega, l'erratico conte vicentino, l'impenitente giocatore d'azzardo, si sarebbe imbarcato volentieri sul nostro vascello corsaro, Indro stralunò gli occhi rotondi e, balbettando un po' incredulo, disse: «Guido non è stato mai un cuor di leone. Bisognerà pur dirgli che in quest'Italia avviata al comunismo morbido con esimi cardinali, con l'intera direzione democristiana e parte della grande borghesia, il canto di una voce fuori dal coro rappresenta un atto di solitaria e suicidarla dissidenza pubblica». Montanelli, iperbolico come sempre, comunque non aveva tutti i torti. Il clima, per noi dissidenti, esibati in patria, s'era fatto irrespirabile e pericoloso. Contava poco, anzi peggiorava l'immagine di ima nostra brada irrispettabilità, il fatto che in Italia avessimo l'appoggio di Rosario Romeo, Renzo De Felice, Nicola Matteucci, Geno Pampaloni, Carlo Laurenzi, Nicola Abbagnano, Remo Cantoni, Augusto Del Noce, Sergio Ricossa, Giovanni Macchia, Mario Praz, Renato Mieli, Vittorio Mathieu, e all' estero il sostegno collaborativo di Ernesto Sabato, Aron, lonesco, Fejto, Furet, Sacharov e Maximov. In pochi anni la borghesia italiana che Montanelli aveva conosciuta e apprezzata era diventata irriconoscibile. S'era trasformata in un gregge che inveiva contro il potere soltanto per nascondere a se stessa d'essere caduta in soggezione d'un altro potere. La cultura egemone, organica o semplicemente cortigiana, aborriva e perseguitava chi faceva stecca non adeguandosi alla polifonia del felice connubio. Ricordo una sera in cui entrai con Montanelli al mila- nesissimo Bagutta dove lui era di casa. Quelli seduti ai tavoli li conosceva tutti, e tutti abbassarono gli occhi sul piatto per non salutarlo. Lalla Romano non si limitò a questo: alzò il pugno chiuso. Il Giornale a quei tempo era ancora in gestazione ma, non appena nacque, dai pugni simbolici si passò ai pugni veri. Sprangate sulla testa dei lettori nei pressi delle edicole, cortei ostili sotto la redazione, irruzioni forsennate nella tipografia, bombe incendiarie contro l'archivio, infine le due rivoltellate contro il direttore che oggi conformisticamente tutti incensano come «il più grande giornalista italiano del Novecento». Allora il fondatore lebbroso si meritò solo il titolo anonimo del Corriere ottomano: «Un giornalista gambizzato in Via Manin». Non tutto questo era ancora accaduto (anche se in parte tutto era già scritto nelle minacciose stelle fredde del tempo) quando Piovene e Montanelli, sollecitati da me, decisero d'incontrarsi. Piovene pativa già di notevoli disturbi di locomozione. Fu Indro a recarsi nella bella e chiara casa di Piazza Belgiqjoso, arredata con gusto parigino dalla moglie dell'autore di Madame la France, a un passo dalla dimora patrizia di Manzoni. Montanelli tornò trasecolato dall'incontro. Mi confidò: «Guido, che di coraggio ne ha avuto sempre poco, mi ha detto che vorrebbe esserci pure lui tra i fondatori. Quando ho cercato di spiegargli i rischi, mi ha troncato la parola in bocca. Mi ha fulminato con quel suo occhio ossidrico borbottando: "Mi resta poco da vivere. E la morte mi dà il coraggio che non ho mai avuto in vita"». Fu proprio così. L'invalido Piovene della fine, il Piovene già spolpato dalla malattia, il presidente e decano sulla sedia a rotelle doveva distinguersi come l'editorialista più impavido e risoluto di tutti noi. Dovevamo ritrovare nei suoi articoli lo stesso riverbero di diamante, duro, scheggiato, tagliente, che promanava dalla prosa dell' ultimo disperato antiromanzo. Verità e menzogna, con cui andava interrogando e sfidando la morte vicina e che sarebbe uscito postumo. L'ansia di verità estrema, anzi estremistica, che bruciava in quelle pagi¬ ne di distacco insofferente dalla vita, rivelava uno scrittore logorato nell'impeto di un'interrogazione finale ostica a tutte le ideologie, filosofie, teologie, e sacralità idolatriche e oppiacee del secolo. Quei suoi affondi furenti, così antideologici, così empi rispetto al senso comune, sembravano combaciare intimamente con le motivazioni più severe e più caustiche di un foglio dissacrante come il nostro. Era nel segno dei binomi di contrapposizione che si muoveva quell'ultimo Piovene tra idoli e ragione, tra verità e menzogne. Non a caso l'addio che ci aveva lasciato prima della scomparsa, e che pubblicammo nel giorno del funerale, annunciava che era venuta l'ora di «disinfestare dagli insetti nocivi» la cultura italiana, «la più rumorosa, fastidiosa, bugiarda dell'Occidente». Non risparmiava strali alle conventicole della borghesia chic. Li scagliava con ferocia cerebrale contro le idee fatte, i pregiudizi coatti, le falsità divulgate dagli intellettuali in carriera che infliggevano alla borghesia, ansiosa di mimetizzarsi, «insulsi formulari catechistici» e «sevi¬ zie» d'ogni genere: soprattutto quella di obbligarla all'applauso dei suoi stessi affossatori. Lo scritto terminava in una condanna senza appello: «Ogi ;i, in Italia, quasi tutto ciò che eggiamo è noioso, banale, rancido e irritante». Era il fosco 1974. Chissà che avrebbe detto del torbido, caotico e slabbrato 2004. Conoscendolo bene, non escludo che avrebbe scritto che il caos degli pseudoconcetti e pseudoconflitti non avrà capolinea in un Paese dove nulla finisce mai e tutto tende a perpetuarsi in formule sempre più ripetitive e più «rancide». Chi, come me, aveva conosciuto anche il Piovene beniamino della vita, il viaggiatore e saggista di successo, l'aristocratico elegante nel pieno del fulgore letterario e mondano, stentava a riconoscere la stessa persona nell'infermo degli anni settanta. Faticavo a mettere d'accordo le due sembianze così diverse nei due tempi della sua vita. Da una parte l'uomo vitale che fumava una sigaretta dopo l'altra, divorava ostriche e selvaggina, s'inerpicava ore e ore per sentieri montagnosi, perdeva nottate nei casinò esultando più delle perdite che delle vincite, e scherniva il plebeo Goffredo Parise quando gli diceva che avrebbe desiderato farsi seppellire accanto alla «tomba del conte» nel famedio del cimitero di Vicenza. Dall'altra parte invece, la parte del congedo e della vecchiaia, vedevo la carcassa svuotata del quasi settantenne che aveva immaginato la propria agonia in un libro precocemente triste, terribilmente profetico, scritto a vent'anni, ma pubblicato dopo la morte nel 1998 col titolo IZ ragazzo di buona famiglia. Quel prematuro romanzo di formazione, costruito su una dolente traccia autobiografica, che Piovene non volle mai pubblicare, era la perla nera del «non detto» segregata a doppia chiave nel suo blindato cassetto d'autore. Una famiglia di nobilotti veneti turbata dal dissesto economico per speculazioni avventate. Nel vecchio della casa, nonno del giovane protagonista allo sbando, intrawediamo una folgorante predizione sul declino e la fine terrena di Piovene medesimo. «Così era, morendo. Marco Guffurio. Chiuso, veramente, in una prigione: perché il suo corpo s'era irrigidito, non rispondeva al volere, non vedeva, non udiva. Ed ecco che il Gaffurio s'era accorto di non averne bisogno: perché tra quelle pareti rigide, inutili, il suo pensiero di muoveva ancora agevolmente, aveva molto da osservare: vivo e agile nel corpo paralizzato, come se questo fosse nulla più d'una scatola. Anzi, si muove meglio: perché non è intralciato e confuso da altri movimenti. L'anima di Marco Guffurio ha preso, in compenso, una consistenza fisica, s'è fatta simile a un paesaggio, non troppo vasto, limitato da viali e filari, da linee precise, appena snebbiato dal sole di mezzogiorno. Sordo, cieco, seppure udisse o vedesse qualche cosa, non potrebbe dame segno; e perciò i familiari dicono ch'egli non capisce più nulla». Qui l'opera giovanile nonché genealogica, l'opera scritta ma «non detta», non consegnata alle stampe, occultata per sette lunghi decenni, si fa medianica e addirittura magica. Guido Piovene, aggredito all'improvviso da un morbo vorace, disossante e paralizzante, simile alla sclerosi a placche, vivrà davvero i suoi ultimi giorni imprigionato nella «scatola» del proprio corpo come il morente e inerte vegliardo Gaffurio. In quella carne spenta che nel romanzo racchiudeva un'anima e un cervello ancora lucidissimi, pulsanti di curiosità, sospesi fra la terra e il cielo, si prefigurava fedelmente, con mezzo secolo d'anticipo, lo stato d'impotenza corporale e di potenza spirituale che faranno di Piovene un morto veggente, pensante e operante per tutta l'estate e tutto l'autunno del 1974. Raramente un libro segreto, tenuto nascosto per così lungo tempo, era riuscito a dirci altrettante cose sul destino dell'autore ch'era stato e resta uno dei più intensi scrittori visionari del ventesimo secolo. Aveva scritto: «Potrebbe capitare anche a noi, come a certi abitanti delle isole polinesiane, di finire disintegrati vivi dalla disperazione». La morte di Piovene non è stata in effetti una morte ordinaria. E' stata, se così posso dire, un tipo di morte preannunciata e totale. Anch'egli, come un aborigeno polinesiano, si è disintegrato vivo dentro le mura dì un corpo già morto. Accadde a Londra, il 24 novembre del '74. Se ne andò ner74. In quello stesso anno, a sorpresa, s'era imbarcato sulla nave corsara del «Giornale» scoprendo con Montanelli l'ostilità della borghesia Spolpato e invalido si distinse come l'editorialista più risoluto e impavido. Nei suoi articoli c'erano gli stessi affondi furenti che promanavano dal suo ultimo antiromanzo «Verità e menzogna» Prima della scomparsa ci lasciò un addio che pubblicammo nel giorno del funerale. Ci esortava a «disinfestare dagli insetti nocivi» la cultura italiana: «La più bugiarda dell'Occidente» Indro Montanelli sfoglia il primo numero del «Giornale» Guido Piovene nel disegno di Ettore Viola Giornale» Guido Piovene nel disegno di Ettore Viola

Luoghi citati: Italia, Londra, Vicenza