A Miami gli esuli non sognano più la vendetta

A Miami gli esuli non sognano più la vendetta A Miami gli esuli non sognano più la vendetta Una nuova generazione punta a una democratizzazione tranquilla MIAMI Qualcuno deve aver capito male, ma nessuno sa se sia stato per un difetto di audio del televisore o per la voglia assatanata che il desiderio fosse realtà. Comunque, la notizia che Fidel era morto si è allargata in un baleno lungo Galle Ocho, nel cuore di quello che è il «barrio cubano» di Miami, Dalla sala del ristorante Versailles, al Supermercado Alimenticio, alla piccola bottega Almacén de Oriente, dovunque un'agitazione improvvisa ha conquistato clienti e passanti; e la festa esplodeva con un coro di voci. Fin che una ripassata ha calmato gli spiriti: «No, no, la Gnn diceva che "lo zio" sta solo male. Quel disgraziato resiste». 1600 mila cubani di Miami stanno con l'orecchio attaccato alla radio, o alla tv, anche quando mangiano; forse, anche quando dormono. Aspettano la notizia della morte di Castro, il «disgraziato», lo «zio» dei loro discorsi, come la liberazione d'una attesa che dura ormai quanto la loro stessa vita qui. Sono arrivati in Usa a più riprese, prima quelli che scappavano dai «barhudos» che avevano preso l'Avana, poi i profughi della nforma agraria, poi i «marielitos» lasciati liberi dal regime, poi i 20 mila che ogni anno ricevono il visto per il viaggio via dall'isola senza (per ora) ritomo. Una marea di gente che domina la vita, il costume quoditiano, la stessa lingua di Miami, dov'è più facile sentir parlare castigliano piuttosto che l'americano della Florida. A lungo, questi cubani che quelli dell'isola chiamavano con disprezzo «los gusanos», i vermi, hanno sognato la controrivoluzione, una gloriosa cacciata da Cuba dei rivoluzionari e il ritomo trionfante del vecchio ordine, con le case da gioco, la ricchezza (dei pochi), magari i traffici facili e la corruzione diffusa che il regime scomparso nel '59 permetteva e sosteneva. La sognavano tanto da organizzare gruppi armati che s'addestravano nelle paludi di Everglades, in prepararazione d'uno sbarco che vendicasse il fallimento dell'avventura alla Baia dei Porci. Ci hanno anche provato, ma è finita sempre male; e contemporaneamente la Revoluciòn si è fatta, laggiù, storia quotidiana di Cuba, forma istituzionale di governo, vita reale della società degli 11 milioni rimasti sull'isola. E il sogno si è fatto sempre più difficile. A tener vivo quel sogno era soprattutto Jorge Mas Canosa, potentissimo leader della Fnca (Fondaciòn Nacional Cubano-Americana), uomo d'affari straricco, abile lobbysta dei giochi elettorali che portano allo scanno della Casa Bianca: controllando il voto dei cubani d'America, aveva voce e credibilità per condizionare le politiche di Washington verso l'isola. L'embargo americano, la durezza costante delle relazioni con l'Avana, erano il risultato di questa pressione revascista. Però poi, due anni fa. Mas Canosa è morto. La Fnca si è scissa. I vecchi «duri e puri» non hanno accettato la nuova linea, propugnata dal figlio di Mas Canosa, e hanno creato una loro organizzazione intransigente, il Consejo Cubano de la Libertad, che continua ad avere seguaci e adepti ma che pare sempre più il retaggio di quelli che ancora oggi sbandierano il pericolo d'un «comunismo» che ormai non esiste più. Il giovane Mas Canosa ha scelto invece una linea moderata, realista, che risponde megho alla condizione sociale attuale dei cubani emigrati negli States: è un mondo integrato negli U^a e negli affari della Florida, per loro Cuba è - sempre più - un desiderio lontano anche se sempre emotivamente forte, cocente. E se pure voghono la fine del castrismo, questa fine non la vedono più come l'eroica ribellione a una dittatura, con i fucili e i bazooka, ma come un inevitabile passaggio di consegne, che vede ora insieme questi di Miami e queUi dell'isola. Un sondaggio della Bendixen, un paio di mesi fa, ha rivelato come il 688- dei cubani di Miami appoggi «completamente» il Proyecto Varela, il piano del dissidente Osvaldo Payà che si batte per un referendum democratico a Glia all'interno delle strutture create dalla Costituzione comunista dell'isola. Payà ha raccolto più delle 10.000 firme che la Costuzione richiede per l'accoglimento d'una domanda di referendum; e anche se il regime ha risposto irrigidendosi, tuttavia la nascita d'una spinta di democratizzazione che parte dal basso è ormai innegabile. «Questo 6807o di favorevoli a una soluzione negoziata, morbida - ha detto Sergio Bendixen - è un mutamento radicale rispetto a soli 5 anni fa, quando tutti i cubani dell'esilio erano fermamente convinti che ogni ipotesi di democratizzazione non potesse che passare per Miami». Bendixen trova la spiegazione in due fatti concreti, che hanno cambiato il panorama sociale dei vecchi «gusanos». «Uno è l'arrivo d'una nuova generazione di cubani, nata e cresciuta in America, e l'altro è l'emergere a Cuba di movimenti di base che chiedono una progressiva democratizzazione delle strutture politiche». Anche Washington ne tiene conto, sia pure con le contraddizioni che il «voto cubano» impone a un Presidente che voglia essere rieletto. Il portavoce del Dipartimento di Stato Charles Barclay ha detto: «C'è stato un cambio, nel paesaggio politico di Cuba. Noi oggi vediamo che la società civile va acquistando un ruolo, si muove, sceglie, con il Proyecto Varela o anche con il lavoro di tanti altri dissidenti». I dollari, quasi 1 miliardo l'anno, di questi cubani dell'esilio sono una manna per l'isola. Ma sono dollari che vengono inviati laggiù non soltanto per aiutare i parenti rimasti a casa, c'è anche il desiderio di mantenere un filo, un legame che consolidi radici comuni. Uno studio legale di Miami ha fatto fotografare da un satelhte l'isola e soprattutto l'Avana; doì ha fatto ingrandire le immagini, e la costituito un archivio del territorio. E ha pubblicato sui giornali locali l'annuncio che è possibile avviare le pratiche di ricupero delle vecchie proprietà abbandonate nella fuga dell'esilio. Bisogna aspettare la fine del castrismo, naturalmente, ma intanto si possono cominciare le prime certificazioni con l'aiuto delle riprese dal satelhte. E si possono proporre le diffide che tengano lontano chiunque immagini di poter investire laggiù su quelle proprietà. Il porto di Miami ha preparato un liano di emergenza, per affrontare 'ipotesi d'un arrivo in massa di esuli di Cuba o, anche, per l'ipotesi opposta, d'una partenza in massa di barche e battelli da qui verso Cuba, all'annuncio d'un cambio di regime. Antonio Jorge, docente di Economia e di Relazioni intemazionah alla Florida University, dice: «Un tempo s'immaginava che quelle barche sarebbero partite per l'Avana con un esercito a bordo; oggi partiranno con uomini d'affari e turisti desiderosi di dare un'occhiata alla loro vecchia casa». Una recente indagine dell'Institute for Cuban and Cuban-Americans Studies, nella Miami Universitry, ha dimostrato che più della metà dei cubani arrivati in Florida non ha alcuna intenzione di tornare a vivere sull'isola, anche se cambiasse il regime pohtico. Dice il professor Andy Gomez, che ha guidato la ricerca: «Non v'è dùbbio, a questo punto, che debbono essere i cubani di Cuba a decidere sul loro futuro». Un tempo è davvero finito per sempre, [m. e] I vecchi «puri e duri» hanno creato una organizzazione dissidente che continua a predicare la lotta al pericolo comunista