Non solo i lager

Non solo i lager Non solo i lager Giovanni De Luna SONO poche le memorie che resistono alle celebrazioni; quando diventano ufficiali, è come se fossero colpite dalla maledizione dei monumenti: diventano monumentali, appunto, si ossificano, si staccano dalle proprie radici fino a seccarsi. Poteva capitare anche alla memoria della Shoah e alla ricorrenza istituzionale del 27 gennaio. Per fortuna finora non è andata cosi e anche quest'anno il calendario delle iniziative appare improntato alla sobrietà e alla misura. Convegni come quello dell'Università Roma Tre dedicato a «Il campo di concentramento nella storia del Novecento» (28-29 gennaio) o le mostre, gli incontri e i dibattiti proposti dall' Associazione "Figli della Shoah" sembrano orientati più a trasmettere conoscenza e a indurre consapevolezza che a celebrare e commemorare. Il rischio delle memorie ufficiali è di raggiungere l'effetto opposto a quello che si propongono; è come se la loro pesantezza favorisse più la rimozione che il ricordo, più la voglia di oblio che il desiderio di sapere. Non a caso parliamo di memoria "ufficiale" e non di memoria collettiva. Controversie e revisionismi nei manuali di storia Quella che si definisce memoria collettiva non è affatto il risultato di un ricordo ma di un patto (Susan Sontag), per cui ci si accorda su ciò che è importante trasmettere alle generazioni future. I confini storici e culturali che circoscrivono questo patto sono fluidi, dinamici, cambiano a seconda delle fasi che scandiscono il corso politico degli eventi; in Italia, quelli su cui si fondava la memoria della Shoah, ad esempio, all'inizio erano circoscritti ai sopravvissuti e alle loro famighe: poi si sono estesi fino ad abbracciare per intero lo schieramento politico di sinistra. Anzi, negli anni 70, la memoria della Shoah poteva essere considerata un elemento costitutivo dell'identità della sinistra, uno di quegli ambiti in cui era possibile distinguerla senza esitazioni dalla "destra". Oggi quei confini sono amplissimi e hanno inglobato, credo, anche Gianfranco Emi e il suo partito. Lungo questo percorso, il riconoscimento ufficiale legato all' istituzione del "giorno della memoria" del 27 gennaio risulta quasi scontato ma non privo dei rischi prima sottolineati. Una memoria collettiva diventa ufficiale quando a stabilire i confini del patto su cui si fonda interviene la sanzione dello Stato, quando, cioè, la Memoria si incontra con la Politica. Con la fine del Novecento le esperienze che si sono avute in questo senso sono in parte bizzarre (la Russia di Putin), in parte virtuose (la Spagna postfranchista), tutte contraddittorie. I manuali di storia sono uno specchio fedele di questo processo tumultuoso; li ha studiati Giuliano Procacci (La memoria controversa. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, AM&D edizioni, Cagliari, 2003), che si è avvalso delle sue vaste conoscenze linguistiche e di una ricognizione compiuta su molti siti Web e su pubblicazioni specializzate. Capita così di imbattersi in ricostruzioni storiche ultra-nazionaliste (in Ucraina, il bandito Mazepa viene ora considerato "un eroe protoucraino") o che fondano una precaria identità nazionale sulla si irla della Chiesa ortodossa (Geoibia, Bielorussia); manuali serbi e croati si «disputano l'onore di essere stati il maggior baluardo della cristianità contro l'invasione ottomana», o, in perfetta contrapposizione, «Gavrilo Princip, l'attentatore di Sarajevo, nei manuali serbi viene presentato come un eroe, in quelli croati come un terrorista». In Russia la situazione è paradossale. Negli anni dello stalinismo, l'imposizione di una storia ufficiale era stata accompagnata da una violenta mutilazione della memoria. Ricordare diventò un crimine, il passato pericoloso: per paura si strapparono le pagine delle enciclopedie, si distrussero lettere e vecchie fotografie. Il dissenso in Urss dalla Rivoluzine al 1990 Così, il contraccolpo della fine dell'URSS è stato fragoroso, provocando prima una sorta di liberalizzazione selvaggia della memoria, poi il tentativo del nuovo regime di costruire una nuova storia ufficiale, mirata alla propria legittimazione. Una nuova vulgata che, però, di quella sovietica riprende spesso gli schemi e i metodi, in particolare il ricorso al silenzio per occultare tutto ciò che è suscettibile di mettere in discussione le tesi ufficiali. Addirittura è come se fosse in atto una cauta rivalutazione di Stalin: nel 1990 Stalin era considerato il personaggio più positivo della storia del paese dall'8% degli intervistati; nel 1997 era il 1S1}*! a condividere questa opinione. Insomma, più il nuovo Stato intensifica gli sforzi per la propria monumentalizzazione, più sembra produrre un contraddittorio ritomo al passato. Nel caso della Russia, c-'ella che resta esclusa dalla memoria istituzionale è proprio la storia del dissenso, dell'opposizione nei lunghi decenni della dittatura comunista. Un bel libro di Marta dell'Asta (Una vita per incominciare. Il dissenso in Urss dal 1917 al 1990, pp.240, C 13, La Casa di Matriona, tei. 035.294021 ) ce ne racconta la storia e ci fornisce anche la spiegazione di questa esclusione. Subito dopo l'avvento della dittatura, fra i primi ad opporre attiva resistenza furono i militanti della sinistra non bolscevica: social-rivoluzionari, anarchici, menscevichi, tutti partiti che avevano largamente contribuito a rovesciare il vecchio regime. Sostenuti da una forte coesione nata ai tempi della lotta contro lo zarismo, in alcuni casi seppero resistere con forza, in nome del vecchio spirito libertario, e furono anche tra i primi a subire le repressioni. Successivamente, però, il dissenso assunse una carattere marcatamente impolitico o prepolitico. Negli anni '30-'40, quando il consenso per Stalin era granitico e compatto, la "resistenza spirituale" quantitativamente toccò i livelli minimi, ma sopravvisse nonostante tutto, soprattutto fra i credenti e alcuni intellettuali. Si trattò letteralmente di un esiguo pugno di uomini e donne, spesso sconosciuti gli uni agli altri, che accettarono di mettere in gioco le proprie carriere professionali, i propri affetti, la prò- pria vita. Il rifiuto nei confronti di Stalin era esistenziale, prima che politico e la cultura e la religione ne divennero l'ambito privilegiato. Dopo la Seconda guerra mondiale, a caratterizzare il dissenso furono alcuni scrittori che si misero a scrivere il segreto, con poche speranze di pubblicazione, dei romanzi assolutamente "improponibili" alla censura; lo fecero soprattutto per sé, per un'esigenza interiore di chiarezza intellettuale e morale. Fu l'epoca dei libri "scritti per il cassetto". Tra queste opere c'erano capolavori assoluti, come Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov che in Russia sarebbe stato pubbhcato 26 anni dopo la morte dell'autore. Anche nei magici "anni '68" il dissenso fu segnato da queste caratteristiche, dalla scelta, come scrive Dell'Asta, di una «via del rinnovamento personale, culturale, legale, che faceva leva sulla persona e i suoi diritti inviolabili, della responsabilità di esprimere pubblicamente queste convinzioni portandone tutte le conseguenze». E' stata questa impoliticità a rendere inassimilabile la storia del dissenso alla nuova memoria ufficiale costruita nella Russia post-sovietica (e fu quella stersa impoliticità a rendere marginale l'influenza del "dissenso" nei confronti dell' Italia del '68: i dissidenti andavano rispettati perché combattevano contro lo stalinismo; per il resto, non avevano le masse alle spalle, ignoravano il peso delle condizioni materiali, si facevano un'idea sbagliata dell'Occidente ...ecc.... Che occasione persa! come sarebbe stato importante, allora, riconoscere nell'anticomunismo esistenziale di Sinjavskij e Daniel' gli stessi tratti dell'antifascismo esistenziale che tanto fascino esercitava sui giovani del movimento!). La lezione politica della guerra di Spagna Il corto circuito tra Politica e Memoria, tra Stato e Storia che segna in chiave paradossale la Russia, sembra evitato invece nel caso della Spagna, sul quale ha recentemente richiamato l'attenzione Michele Salvati, nella sua lunga ed efficace introduzione a V. Perez-Diaz, La lezione spagnola. Società civile, politica e legalità (Il Mulino, pp.459, C 25). Dopo la morte di Franco, la messa tra parentesi del passato, della guerra civile che tra il 1936 e il 1939 sprofondò il paese in un abisso di ferocia e di orrore (500 mila morti, almeno), ha contribuito alla moderazione del conflitto politico, a consolidare l'asset¬ to democratico della Spagna. Nel 1939 il silenzio/oblio fu imposto dai vincitori e i vinti furono espropriati anche della possibilità di ricordare; dopo Franco, il silenzio ufficiale sul passato è stata una scelta "virtuosa" per consentire l'avvio della democrazia: la politica ha fatto un passo indietro lasciando il campo alla ricerca storica e al dibattito culturale. La Spagna non è l'unico esempio che si può citare in questa direzione; il Ruanda è un caso limite: dopo il genocidio del 1994 l'insegnamento della storia è stato addirittura soppresso per evitare nuovi odi tra tutsi e hutu. Più in generale, Luisa Passerini (Memoria e Utopia, Bollati Boringhieri, p.164, ^8) ha sottolineato come nell'Atene antica (V secolo a.C.) fosse vietato ricordare le sventure del passato per avere la possibilità di costruire una memoria civica in grado di sanare le ferite delle guerre civili. Le possibili conciliazioni e ì necessari punti fermi E' vero, il Novecento ci ha lasciato un carico eccessivo di nefandezze, troppi morti in guerra (182 milioni solo fino al 1994), troppe ingiustizie nel mondo. E il troppo ricordare esaspera. Per fare pace, per giungere a una riconciliazione è necessario che la memoria sia limitata. Ma così ritorniamo ai confini del patto che segna la memoria collettiva. Chi è che pone questi limiti? Ancora una volta è la memoria ufficiale a essere tirata in ballo. Quella ingorda, quella che vuole tenere insieme Cefalonia e el Alamein, la Resistenza e i "ragazzi di Salò", è destinata a implodere su se stessa: quei confini smisurati diventano paradossalmente un ostacolo a "fare la pace", un abito di Arlecchino che ognuno indossa come gli pare; sotto la crosta di quella unanimità formale, le memorie restano inconciliate e separate. Una memoria ufficiale può essere utile e funzionare solo se è "leggera", se ha il coraggio di circoscrivere drasticamente i confini del patto, inseguendo non l'unanimità ma la chiarezza e la trasparenza. Salvati riflette in questo senso sulla Spagna per riferirsi esplicitamente all'Italia, auspicando una memoria ufficiale semplicpmente ancorata "al punto fermo della Costituzione, della condivisione profonda dei valori liberaldemocratici che essa sancisce": una volta delimitato questo spazio, le memorie private e quelle dei singoli filoni politico-culturali possono essere lasciate libere di competere e di confrontarsi. Ritornando ai "giorni della memoria": un'Italia civile può riconoscersi, ad esempio, nel 4 novembre come data della Vittoria, ufficializzando così un valore portante della nostra comunità nazionale, il raggiungimento - con Trento e Trieste - della piena integrità territoriale. All' intemo dello spazio pubblico così recintato, c'è posto per il confronto tra le tante e opposte memorie di quella guerra: T'inutile strage" dei cattolici, le sofferenze delle classi subalterne per la sinistra, la maturità e l'efficienza dell'Italia liberale, ecc.. Fuori da quello spazio pubblico si collocherebbero solo quelle memorie fondate sulla guerra "come igiene del mondo", o come conferma della superiorità della nostra razza sugli slavi. Così per il 25 aprile: nella memoria ufficiale quella data ricorda il valore indiscusso della riconquista della libertà dopo venti anni di dittatura. Dentro i confini del patto restano le divergenti inteipretazioni di chi in quel giorno vede la fine dell'incubo della guerra, il segno di una rivoluzione mancata, la nascita della democrazia, l'avvio di una restaurazione politica, ecc.; ne restano fuori solo quelli ohe pensano che sia stata una sciagura, una pagina nera della nostra storia e che il "male assoluto" non sia stato il fascismo (Fini) ma la morte di Mussolini. Non solo i lager