Eravamo Mondadori stirpe contadina e famiglia di testardi

Eravamo Mondadori stirpe contadina e famiglia di testardi ARNOLDO E I SUOI FIGLI: UNA SAGA SENZA ESCLUSIONE DI COLPI Eravamo Mondadori stirpe contadina e famiglia di testardi Nelle memorie di Cristina, l'ultima nata e la più amata dal grande editore, i successi e i rovesci di una dinastia italiana Chiara Berla di Argentine POCO tempo prima di morire, 18 giugno 1971, Arnoldo Mondadori con la moghe Andreina Monicelh va alle terme Euganee. Con i Mondadori c'è l'amico più caro di Arnoldo, Valentino Bompiani e sua moghe Nini. L'incantatore di serpenti, «l'incantabiss», come lo chiamavano a Ostigha, il paese della Bassa Mantovana dove era nato il 2 novembre 1889, in ima famiglia poverissima («in casa pioveva dal tetto e spesso erano costretti a dormire con l'ombrello aperto sui materassi») sa di essere arrivato all'ultimo capitolo della sua mirabolante vita. Da tempo ha predisposto ogni cosa con cura. Ha scelto personalmente la sua tomba lontano dalle nebbie della Bassa, al cimitero Monumentale di Milano (un «posto al sole», diceva, per poterci piantare una rosa, il simbolo della sua casa editrice); ha disposto la donazione alla città di Mantova dell'intera collezione di quadri di Spadini e Zandomeneghi; e ha persino dettato il testo del necrologio da pubblicare, alla sua scomparsa, sul Corriere della Sera: «E' mancato con amore ai suoi cari Arnoldo Mondadori». Non un aggettivo, non una parola di più; altrimenti - aveva spiegato con la sua proverbiale oculatezza - il giornale avrebbe ricavato troppi vantaggi economici. Quanto all'aziènda - la ragione assoluta di tutta la sua vita Arnoldo Mondadori, d'accordo con la moghe, si era preoccupato di dividere equamente le quote ai quattro figh, senza fare differenza tra i due maschi, Alberto e Giorgio, e le due femmine, Mimma e Cristina. Un finale perfetto per un vecchio leone che aveva percorso tutta la sua strada in salita; da quando, dopo la quinta elementare, a undici anni non ancora compiuti, già lavorava da u. dittino a sera; a giovane tipografo che, nei giorni della rotta di Caporetto, sfidando il pericolo, si era trasferito con la famiglia a Verona, dove sarebbero sorti gh stabilimenti Mondadori; ai giorni difficih dopo la Liberazione, quando, parlando a Verona ai suoi operai per tre ore filate (dalla foga inghiottì anche una mosca), era riuscito non solo a convincerli di non essere stato connivente col regime ma, anzi, di essere fuggito in Svizzera proprio per non collaborare con i nazifascisti. Ma, in quella primavera del 71, Arnoldo Mondadori è solo un uomo angosciato. Per quello che sarebbe successo, nonostante le sue ultime volontà, alla sua famiglia, alla sua casa editrice. La morte del fondatore di una dinastia industriale così potente e così fragile è un passaggio chiave nel libro Le mie famiglie, edito da Bompiani, di Cristina «Pucci» Mondadori, la figlia più piccola e molto amata del grande editore; moghe di Mario Formenton, dal 1967 vicepresidente e amministratore delegato della casa editrice. Le mie famiglie, storia dei Mondadori, dei Monicelh, dei Formenton, è dedicato dall'autrice a sua madre, Andreina. Donna bella e ieratica Andreina Monicelh (zia del famoso regista) che non amava i salotti («s'incontra "gente inutile"», diceva) e aveva allevato le fighe sostenendo che non dovevano studiare troppo perché «le donne colte rendono gli uomini infelici». E poi «se una donna è intelligente, deve essere così intelligente da non farlo vedere mai». Una madre, infine, ritrovata quando Cristina, già mamma di quattro figh, insofferente alla vita da signora-bene nella Verona anni Sessanta (pagine sferzanti sono dedicate a certe contesse che avevano accolto in città la giovane coppia Formenton sibilando: «lui è un bell'uomo lei ha un bel cognome») si rimise a studiare e, unica della prima generazione dei Mondadori, si laureò, in medicina. Fu allora che la madre davanti ai suoi fratelli fece il grande gesto, le regalò l'anello della laurea honoris causa di Arnoldo. Un oggetto, per i ricchissimi Mondadori, dal valore solo simbolico che era stato al centro di animate discussioni in famigha. «Tanto per mantenere le abitudini», chiosa Cristina. Mimma, infatti, lo voleva per suo figho Leonardo, al quale aveva voluto dare il cognome di suo padre e non del comandante partigiano, Giorgio Fomeron, suo marito per pochi mesi e Alberto per suo figho Fabrizio, il maggiore dei nipoti. Anche sulle vicende di casa il patriarca, insomma, aveva avuto buon fiuto. Scrive Cristina ricordando quell'ultima vacanza dei suoi genitori alle terme: «Lì mio padre aveva confidato a Valentino Bompiani le sue preoccupazioni per il nostro futuro, e per quello dell'azienda, una volta che lui non ci fosse stato più. Del resto lo aveva detto anche a noi, quando si era dovuto mettere a letto : "Saprete cavarvela?". Ouella volta lo aveva tranquillizzato Mario: "Ma come puoi dubitarne? Sono anni, decenni, che tutti i giorni ci spieghi la lezione e qualche cosa abbiamo imparato». Illusione. Nel suo racconto Cristina narra senza ritrosia i passaggi anche più aspri della dilaniante vita familiare - i lutti, le faide, la causa intentata da Giorgio che voleva opporsi a che Leonardo portasse il loro cognome - intrecciando il tutto la nascita degli Oscar Mondadori o dei settimanah, da Epoca a BoZero, e ancora, con i momenti heti, le feste per gh loro autori con la copertina del libro da lanciare riprodotto sulla torta; il suo matrimonio (si innamorò di Formenton a 14 anni) nella villa di famigha, a Meina, con Salvator Gotta alla chitarra e Michele CasceUa chf) aveva dipinto deUe tavole della loro storia d'amore. Una vera saga dei Mondadori che Cristina dipana con aneddoti anche minori, spesso densi d'ironia. «Fa parte del mio carattere e credo di averla ereditata da mio padre Arnoldo, che era sempre sorridente, solare e, quando poteva sdrammatizzava», annota. Così, lei sorride con suo padre quando gh fa notare come nel famoso necrologio sarebbe stato più corretto scrivere «è mancato all'amore dei suoi cari», e Arnoldo ribatte che del «suo» amore era sicuro, ma di quello della sua famigha per lui lo era di meno. Surreale. Ouella sera di giugno dopo il solenne funerale di Arnoldo tra tante autorità, i suoi operai arrivati da Verona, amici, cortigiani, autori («Vittorio G. Rossi continuava a singhiozzare "Il mio Arnoldo"... Alba De Céspedes con una rosa in mano voleva salutare il "suo" editore...») e una folta «rappresentanza di "eravamo Mondadori"», ovvero le numerose ex mogh e ex mariti dei suoi fratelli; gh eredi Mondadori si ritrovarono nella casa di famigha, in piazza Duse, nel cuore di Milano. Una casa in affitto perché Arnoldo ha sempre avuto «il senso della misura» e stava attento a non fare mai «il passo più lungo della sua gamba», come soleva dire riferendosi a quello spendaccione di Erre, così chiamava il suo grande rivale. Angelo Rizzoli (dopo decenni di gelo si abbracciarono solo nel '70, pochi mesi prima della morte di Rizzoli, su insistenza del presidente del Rotary). Ebbene quella sera, in piazza Duse, i Mondadori non parlano di libertà di stampa, né tantomeno del futuro dei giomah e dei tanti giornalisti della Mondadori (quasi nessuno è citato nel libro). Ricorda Cristina Mondadori che fu suo fratello Giorgio ad accorgersi per primo che mancava il bastone che Arnoldo aveva sempre con sé. «Dov'è il bastone di papà», si agitò sua sorella Mimma; mentre l'amatissimo fratello maggiore, Alberto, il più geniale e megalomane dei Mondadori (grande amico ed editore di Hemingway; con il cugino Giorgio Monicelh inventò nel '50 il termine «fantascienza» e la rivista Urania; nel '58 creò il marchio editoriale, il Saggiatore, con autori come Sartre e Lévi-Strauss) le strizzò l'occhio: aveva capito che il bastone di Arnoldo lo aveva nascosto lei, per avere un ricordo del padre. «Il momento di commozione», annota Cristina Mondadori, «fu rotto dalla voce di Giorgio al quale era venuta un'idea: "Bisognerebbe proprio che saltasse fuo- ri, così almeno ne facciamo tre copie e ognuno ha la sua..." Tre copie del bastone del presidente! Com'eravamno diversi!», conclude. Il resto, è la storia con risvolti anche giudiziari della lotta tra Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi per il controUo della casa editrice di Segrate. Morto il fratello Alberto, morta la madre Andreina che aveva appoggiato come Arnoldo l'ascesa di Formenton (Giorgio in guerra con tutta la famigha ricomparirà solo ai funerali della mamma), infine in rotta anche con Mimma, Cristina si ritrova sola. A fine marzo '87, provato anche fisicamente dal crac di Retequattro, Mario Formenton, l'editore che aveva fondato con Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari il quotidiano la Repubblica, non esce vivo da una delicata operazione. Cristina e i suoi figh prima appoggiano de Benedetti ma poi - è il famoso «ribaltone» passano dalla parte di Berlusconi riconciliandosi così con Mimma e Leonardo. «Vendete a chi vi offre di più. Non mettetevi in un gioco più grande di voi...», secondo Cristina erano stati gli ultimi consigli del marito, amatissimo, prima della fatale operazione. Certo i soldi, certo il desiderio di fare la pace con sua sorella, certo l'abilità di Berlusconi che alla fine di un pranzo ad Arcore le aveva promesso; «Cara signora Formenton io non posso certo dichiararmi suo amico. Le nostre storie sono troppo diverse. Però con me l'avvenire dei suoi figh è assicurato. In secondo luogo, la vostra famigha con Mimma e Leonardo si riunirebbe in Mondadori. Le chiedo solo di riflettere». Ma nel suo libro Cristina Mondadori non nasconde che molto dipese dal comportamento avuto nei suoi confronti da Carlo De Benedetti che alla morte di Formenton era corso da lei per rassicurarla: «considerami un padre per i tuoi figh»; per un'estate, in Sardegna, aveva persino tenuto sulle ginocchia la piccola Benedetta D'Intino (la nipotina di Cristina che morirà pochi mesi dopo, a lei è dedicata la fondazione che la famigha ha voluto per aiutare i bambini più poveri e malati; e a questa fondazione è destinato il ricavato delle vendite del libro) per poi sparire. Non farsi più vedere. Vendetta da femmina ferita (Cristina si risposerà, infine, con Mario GaUini) che, nel libro, si toghe tanti sassolini dahe scarpe. Racconta, per esempio che Piero Ottone cercò di convincerla a non vendere le sue azioni a Berlusconi: «Con lui, ma non soltanto con lui, fui durissima». Sono stati il figho di Cristina, Luca Formenton, oggi presidente deUa casa editrice il Saggiatore e la giovane nipote Martina Mondadori, entrata nel cda di Segrate alla morte del padre Leonardo, a convincere la figlia prediletta di Arnoldo a scrivere le sue memorie. Un esercizio a tratti quasi impietoso; ma, forse, ricordare anche le pagine più buie della sua famigha servirà a chi come Luca e Martina spera che la storia dei Mondadori, stirpe di contadini della Bassa padana, forti e testardi, non sia finita per sempre. Dalle origini del capostipite nella Bassa mantovana al suo matrimonio con Andreina Monicelli L'ascesa dell'azienda, la rivalità con Rizzoli, la tempesta degli Anni 80 per il controllo della casa di Segrate Sopra una foto di gruppo della famiglia Mondadori: in basso, da sinistra, RonnyBonelli, Leonardo Mondadori, Luca Formenton, Pinin Odescalchl, Chiara e Silvia Formenton; al centro Nicoletta Mondadori, Mara Panconesi, Giorgio Mondadori, Andreina Mondadori, Arnoldo Mondadori, Cristina Mondadori, Mimma Mondadori, Plinio Odescalchi Dietro Marco Mondadori, Mario Formenton, Virginia Barella Mondadori, Alberto Mondadori Cristina Mondadori nel giorno delle nozze con Mario Formenton Arnoldo Mondadori con Simenon