IL GIARDINO dei sortilegi

IL GIARDINO dei sortilegi CENTO ANNI FA CECHOV DAVA L'ADDIO AL TEATRO E ALLA VITA CON .UNA COMMEDIA MISTERIOSA, DIVENTATA LA «CROCE DEGLI INTERPRETI» IL GIARDINO dei sortilegi Guido Ceronetti E' CCO è il 17 gennaio 2004: i cento anni fa, non so se al crepuscolo o più tardi, secondo le ahitudini di' allora e gli orari del Teatro d'Arte, andava in scena a Mosca, per la prima volta, Il Giardino dei Ciliegi. Il titolo venne a Cechov dall'aver visto un ramo fiorito, bianco, mesi prima, sendere da una finestra. Sarà 'estremo canto del teatro cecoviano: Anton Pavlovic morì il 2 luglio dello stesso anno, a Badenweiler, in Germania, la moglie Olga ne ha raccontato la fine. Mai mi sognerei di collocare una prima teatrale in un giorno nefas, come il 17, ma evidentemente a Stanislavskij questo non importava, e le paure numerali non sono dappertutto le stesse. Tuttavia, ci sono simmetrie: Cechov stesso era nato il 17 gennaio 1860, e il 17 del Giardino fu la pietra tombale del suo scrivere per il teatro: da qui poi, l'Anàstasis angehea, la resurrezione e la diffusione mondiale di quel ramo bianco di ciliegio in fiore. E' bello che, cento anni dopo, ne resti in sospeso la definizione, Stanislavskij, purtroppo, non aveva dubbi che si trattasse di una tragedia; Cechov tirava dall'altra parte con tutta l'energia che gli restava, e da Yalta protestava: -Commedia! Una com-me-dialMa gli attori erano sotto la dispotica ipnosi stanislavskiana. Cechov pretendeva fosse anche una commedia umoristica, e a vederla così si finirebbe bruttamente fuori strada. Se avesse letto Yasunari Kawabata avrebbe forse pensato che verso quel mondo orientale di difficile definizione per uà razionalista occidentale era rivolta la faccia intema, invisibile, del suo Giardino. E altrettanto se avesse scorso i famosi album di disegni di Hokusai, dove quasi tutto è «Paese delle Nevi» e rami bianchi fioriti, paesaggi e eremi innevati, bianco il mantello del viandante, bianca la cascata di Kirifuri. Georges Banu, in un libro sul teatro in Giappone che credo aver riletto ima dozzina di volte, parla di un Giardino dei Ciliegi metonimico, la scena riempita da un albero, che tuttavia, per paradosso squisito, non è affatto un ciliegio, ma una quercia secolare. Là, i personaggi cecoviani sono impigliati in radici simboliche al di là di quello stesso giardino che sarà vittima viva della scure: vi teniamo stretti, non sfuggirete. Un'audacia, dire il bianco della fioritura senza il bianco, ma pensiamo al Sorriso-del-Gatto-senza-il-Gatto nel salto oltre la realtà di Alice in Wonderland, capiremo che si può. Dal libro di Banu ho imparato un'espressione che comprende meravigUosamente il teatro ceco- viano e in specie il lavoro in cui gettò e dispose con più musicale arte dei fiori tutto quel che gli aveva appreso la vita e il suo perpetuo accento di dolore: monono oware. L'unica traduzione possibile è anche la più esatta: lo struggimento delle cose. Una regìa del Giardino si può fare soltanto a partire di là: non puoi né svuotare di ogni accessorio la scena, come ha fatto Peter Brook, né farla tutta simbolica nel segno della bianchezza, come Strehler, né arredarla meticolosamente, come Stanislavskij. Le cose della vecchia casa dei Ranievskij, i loro alberi e le loro anime sono un'unica cosa di struggimento. Né tragedia (il tragico ne è assente), né commedia (se non genericamen*i), e non per nulla verso il termine del secondo atto e quando tutto è finito e vuoto, e la scure picchia sui tronchi in cadenza di morte, Cechov ha messo la sua freccia orientante che è diventata una vera crux interpretum teatrale: il suono della corda che si spezza. Nella Sua nota capitale di regìa del 16 marzo 1974, Strehler espone le ragioni della sua soppressione del suono della corda che si spezza. Per me è una freccia orientante, per Strehler un gesto illusionistico dell'autore che va espresso silenziosamente, trasferito nei personaggi, di fatto inudibile. Eppure tutto il mono-no oware del Giardino è riassumibile - anche i ciliegi abbattuti - in quel suono misterioso. E' un rischio mettercelo ed è una rinuncia forte escluderlo. Sarebbe come rinunciare ai colpi battuti alla porta del castello di Invemess, dov'è appena stato ucciso Duncano, all'inizio della scena tre di Macbeth, atto E. Knock, knock, knock! Ognuno di quei colpi è un evento... Brook, nella sua creazione del 1980 (che non ho visto) ha tolto la corda che si spezza, insieme al giardino: in un cerio senso, sopprimendo quel suono il giardino si fa harakiri. E Ljuba, incarnazione del giardino, dovrebbe anche lei sparire: o basta a significarlo? Brook, alle Bouffes du Nord, ha tolto anche le sedie, si vedono gli attori seduti su grandi tappeti come degli yogin scomposti, indossando perfette ricreazioni di moda russa fine XIX, con bei contrasti di nero e bianco. A Gaev l'armadio fu lasciato. Chissà se Anton Pavlovic, positivista ateo, medico scettico e attivo nel bene senza fine di lucro celeste, conosceva il vs. 6 del dodicesimo di Qohélet che comincia: «Prima che il cavo d'argento si rompa...»? I biblisti lo interpretano come il venir meno ultimo del cuore (in parallelismo col «globo d'oro» che segue) e cuore morente ha suono lento, agonico metaforicamente può essere detto «corda che si spezza». Certo, in un lucido presagio, Cechov avrà pensato: sono un uomo finito, non scriverò altro teatro, è questo mio cuore la corda che si spezza. Nel secondo atto, tutti tacciono (cessa lo sproloquio di Gaev) e all'improvviso quel suono sopravviene «come venisse dal cielo» e non è di questo mondo. L'azione avrà così una netta cesura, in quel punto (si può osservare che ne viene spartita in due metà uguali), come l'hanno le Baccanti di Euripide nella celebre A isolata di Dioniso (v. 810) da cui parte il vero ritmo tragico. Fu dunque calcolata, non messa là pour emmerder Stanislavskij (di cui, dopo la prima che non vide, Cechov disse: «Miha ucciso il Giardino»). Il Giardino è una tessitura talmente delicata che fai presto ad ucciderlo. Una regia che lo lasci illeso del tutto può essere fatta soltanto in sogno. Nel suo manuale di iniziazione al disegno Hokusai dice: «Mai bisogna dimenticare che le cose appartengono a un universo la cui armonia non può essere infranta». Riinventare questo schivo capolavoro senza scalfirlo sa quasi di prodigio. Frangoise Morvan, in postfazione alla traduzione francese di André Markowicz (Actes Sud 1992) intende così la «corda che si spezza». «Misterioso rumore, suono di mistero, destinato a restare tale, non collocato al centro del lavoro con la sola intenzione di far dannare un regista troppo preoccupato di verismo, ma intro¬ dotto perché non dicesse nulla a nessuno, esprimendo tutto: vuoto come la casa vuota, vicino e lontano come la morte, spoglio di significato e concentrando in sé il senso del dramma». Gli si è data (dalla stessa Morvan e da altri) la voce del tarabuso iBotaurus stellaris), che somiglia a un muggito taurino, una volta frequente perfino in Piemonte, sul lago di Candia in Canavese, e nel delta padano. E' suono triste, udibile da grande distanza, e forse lo renderebbe lo shofàr di Kippur, capace di creare un'emozione molto simile a quella voluta da Cechov. Emettendo più d'un suono vien meno in noi il «cavo d'argento», suscitando le prefiche nel suk. Congetturo, perché il tarocco giusto non so indovinarlo: la soluzione può essere in una modulazione di corde vocali umane, nel gemito funebre di un sassofono di New Orleans. In scena Cechov, nel secondo atto, ha posto in lontananza dei pali del telegrafo: se la corda che si spezza fosse un segnale di S.O.S. in Morse? S.O.S. è mono no aware, specialmente se le tre linee al centro del segnale sono fatte udire molto lentamente... Quel che avviene immediatamente dopo è un momento della verità per quei fragili personaggi, e' è l'inattesa comparsa di un mendicante che in cerca della stazione si fa dare trenta copechi, il forte turbamento di Liuba (presagio netto di morte prossima del Giardino, di ferimento d'anima propria), c'è l'orazione di Trofimov, allucinata, sullo stato della Russia e la necessità del lavorare (e una frase stupenda: «Tutta quanta la Russia è per noi giardino dei cihegi»), il perdersi delle voci nel crepuscolo, la baló'aika. Varia in cerca di Ania quasi fosse perduta per sempre. Da quella cesura centrale il ritmo cambia e tutto (tempo e fatti) correrà veloce verso la conclusione. (Anton Pavlovic era furioso che a Mosca gli avessero reso lentissimo il quarto atto). Molti anni dopo Stanislavskij riconobbe che il segreto incanto, «l'aroma inesprimibile» del Giardino andarono perduti a quell'epoca in quanto «la nostra tecnica interiore e la nostra capacità di agire sull'anima creatrice degli artisti erano ancora primitive. Le vie misteriose che conducono nel profondo delle opere non ie avevamo ancora trovate». Si pentì anche Nemirovic-Dancenko, direttore del Teatro d'Arte: «...lo toccavamo con mani troppo rozze». Delle manie mimetico-naturalistiche del teatro di allora, russo o europeo, Cechov fu sempre insofferente: -E' come se voi sonando un pianissimo in quel momento vi cadesse il coperchio del pianoforte!- Pur volendo rivoluzionare tutto, lo stesso Mejerchòld continuò a rappresentare Cechov entro gli stessi schemi (del resto, i più conformi al sovietisr"o): a far cadere sul pianissimo il coperchio del pianoforte. Non soltanto si derussifica il Giardino, col suo plotone di falhti così localmente marcati, nella ricerca d'Occidente e d'Oriente per rifarlo contemporaneo; nella stessa Russia postsovietica la tipologia cechoviana come realtà riscontrabile è volata via. L'inevitabile distacco dall'autentica sostanza umana di quelle figure strane e dolenti in questi frenetici cento anni trascorsi rema contro la loro rianimazione, se non si riesca a spremerne intero l'inesprimibile. Le mani si sono fatte più attente e più caute, ma via via, forse, meno capaci di toccare con tremore ima tronche de vie dove le comparse si sono fatte ideogrammi puri, polvere di sogni. L'abitante delle città ha perso perfino la nozione di un ramo bianco di cihegio in fiore, vive in una foresta di antenne digitali, nessuno sente più, tra i decibel, la corda che si spezza e la scure che abbatte i tronchi. Non si sbaglia, finché la messinscena resta immaginaria, e questo mi diverto a fare, ascoltando le voci che si fanno udibili attraverso le traduzioni. E spesso lo struggimento delle cose che dal bianco della pagina ti solca l'anima s'impone come un pungigUone d'ape regina. E presto svanisce. Allora si manifesta il verso finale di Fonès, di Kavafis: E già è un lontano, nella notte, di musica, svanire. Il titolo venne allo scrittore dall'avervistounramo fiorito, bianco, pendere da una finestra. Alla prima del 17 gennaio a Mosca l'opera fu offerta come una tragedia: fu l'inizio di un lungo equivoco La scure che si abbatte sui ciliegi è il suono della corda che si spezza. In un allestimento teatrale è un rischio metterlo, ed è una rinuncia forte escluderlo. E' simile al «cavo d'argento» di cui parla il «Qohélet»: i biblisti lo interpretano come il venir meno del cuore Una scena del Giardino dei ciliegi nello storico allestimento di Giorgio Strehler WTyJ^H Hmm* ?a| Bi||l_ ^^- HP* l^j PP^^^ ^* W^^' ■'■■ ^^_ .-m BP^^ . -"" SiijflliMii Sr ''SSHil HF8 ^^pSTWP'^^^i J^fjjpfj^ s ^^Pf^B HSJa ^^-j ^^B ' !;■ !^0 H :|. ^%L ^B lii|g|jB m , ~: .V 1 &?Ml V ^Hi^- '^Mf-Wt H';.,f v. * jJ^^^S*' ^W^^PBjj ■k /^ "ll i ' vl m-mm WUBB^tmSBBk '/ J ,:'.-.siS^t . . 4» H Monica Guerritore interprete del Giardino prima con Strehler e poi con Gabriele Lavla Anton Cechov moriva il 2 luglio del 1904, in Germania ^•w ^fe mm ^i^ms^ B.