DONNE in guerra contro il male di Filippo Ceccarelli

DONNE in guerra contro il male ANNALENATONELLI E UN COLLETTIVO DI PSICOLOGHE: DUE DOCUMENTI SULL'IMPEGNO FEMMINILE NEGLI INFERNI DEL MONDO DONNE in guerra contro il male Filippo Ceccarelli DONNE del XXI secolo alle prese con il male. Come dire i percorsi apparentemente più diversi, da Gesù Cristo alla psicanalisi freudiana, per un esito uguale nella sostanza: alleviare le sofferenze. E trasformarle nel loro contrario, cioè nel bene. Una di queste donne è, anzi era una signora che sarebbe riduttivo considerare ima volontaria. Senza alcuna enfasi la si può definire una martire: e infatti è stata uccisa nell'ottobre scorso, a Borama, Somalia nord occidentale. Negli archivi elettronici dei giornali non è difficile trovare foto di Annalena Tonelli, da Forlì. Un volto grazioso, un corpo filiforme, di solito appare su uno sfondo di baracche, mentre presta attenzione a qualche africano magro come lei. «Ho assunto fin dove è possibile imo stile di vita uguale a loro ha lasciato scritto -. Vivo una vita molto sobria nell'abitazione, nel cibo, nei mezzi di trasporto, negli abiti. Ho rinunciato spontaneamente alle abitudini occidentali, cercando un dialogo con tutti. Ho dato care (cura), amore, fedeltà e passione. Il Signore mi perdoni se dico delle parole troppo grandi». Pioniera della lotta alla tubercolosi, si deve alla Tonelli l'invenzione e la sperimentazione di un protocollo samtario adottato dall'Oms per i nomadi colpiti da quella malattia. L'hanno ammazzata con due colpi di fucile in casa. Omicidio ancora poco chiaro, sospetto terrorismo integralista islamico. O follia di vagabondi. Comunque un delitto consumatosi in una delle zone più abbandonate del mondo. Non aveva ancora 60 anni, e la sua ultima azione è stata la visita che faceva tutti i giorni agli ammalati. Nel suo ultimo numero, una rivista cattolica che si segnala per la sua vocazione ecumenica, Appunti di viaggio, pubblica la prima parte del testo con cui la Tonelli accolse il prestigioso premio «Nansen»: un autentico testamento spirituale. E' un documento per certi versi sconvolgente, di rara e semplice bellezza, tanto limpido nel racconto autobiografico, quanto fiammeggiante nella prosa. Era il 1969 quando Annalena, allora 26enne, parti per l'Africa: «Scelsi di essere per gli altri: i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, inon amati, che ero una bambina e così sono stata e confido di continuare a essere fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null'altro mi interessava così fortemente: Cristo e i poveri in Cristo. Per lui feci una scelta di povertà radicale, anche se povera come un vero povero come i poveri di cui è piena ogni mia giornata - io non potrò essere mai. Vivo a servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza uno stipendio, senza un salario, senza versamenti di contributi volontari per quando sarò vecchia. Sono non sposata perché così scelsi nella gioia quando ero giovane. Volevo essere tutta per Dio». Un manuale emotivo Quanto di più laico, a prima vista, è l'altro documento femminile di cui ha anche dato conto il mese scorso Le Monde Diplomatique. Si tratta di un libro di gruppo, una specie di manuale emotivo scritto con pazienza e professionale meticolosità da quattro psicanaUste di Bologna, alcune delle quali già comuniste, poi femministe, pacifiste e oggi impegnate sul fronte universitario e su quello concreto della psicoterapia. S'intitola dunque, il libro di Patrizia Brunori, Gianna Candolo, Maddalena Dona dalle Rose e Maria Chiara Risoldi (quest'ultima a suo tempo giornalista di Rinascita): Traumi di guerra (Manni, 252 pagine, 15 euro) e racconta in che modo queste quattro donne abbiano deciso di costruire pezzo dopo pezzo, nell'arco di sei anni, una assai complicata esperienza di aiuto, formazione e supervisione a un gruppo di colleghe bosniache nel corso della guerra balcanica. Quando le popolazioni, laggiù, e in particolare le donne erano sottoposte appunto ai peggiori traumi di guerra, dalla deportazione alla morte dei mariti e dei figli, fino allo stupro etnico usato come arma di guerra. Anche qui è cominciato tutto in modo molto naturale. Una delle quattro, a un convegno, conosce una psichiatra di Tuzla, Mania, musulmanR, che sta svolgendo il suo lavoro di aiuto psicologico nel dramma e nell'urgenza, sotto le bombe. Gli strizzacerveUi, si sa, hanno continuo bisogno di supervisioni. E in Bosnia la quantità di dolore impone la necessità di altettranto sostegno, formazione. Insomma, Irfanka chiede aiuto. Le bolognesi invece hanno poco tempo, e impedimenti, e dubbi, e paure. Ma si scoprono una grande curiosità professionale, e la voglia di mettere la psicanalisi di fronte alle disgrazie vere della vita e della morte. E' in fondo anche l'ennesima resa dei conti con il loro inconscio, e con le relazioni del loro piccolo grande mondo femmini- Poco sanno della Yugoslavia. E' un luogo di vacanze, una sponda remota. Per dire la distanza Patrizia ricorda che dalle sue parti, in Ror^pgna, si diceva per scherzo: «.Te dag 'na papaia che t'arrivfin da Tito». A Maria Chiara risulta sgradevole girare da sola di notte perfino nella sua città: «Cominciai a fare i conti con la paura e il bisogno di elaborarla al confronto di persone che venivano da città dove c'era la guerra». Fino a chiedersi. «Quando vincersi e quando no?». «Ho cominciato a lavorare a questo progetto in una sorta di buio» confessa Gianna. Da «Casa Tuzla» alla «Manyatta» Così come Maddalena che, per spiegare il senso della sua adesione, cerca di dipanare un groviglio in cui convivono i fratelli Karamazov e l'avventura del viaggio, il destino dei bimbi che nasceranno dagli stupri e la terribile curiosità, l'infinito «bisogno di sapere, sapere, sapere...». Bene. Quali che siano gli im¬ pulsi e le motivazioni, la loro storia finisce per rivelarsi quella di un rapimento, o meglio un auto-rapimento, assai più esistenziale che professionale. Quindi assoluto e totalizzante nell'ansia di servizio e di riparazione. In questo, anche se i paragoni sono in genere poveri e devianti, la vicenda del gruppo bolognese assomiglia a quella di Annalena Tonelli. Si tratta in entrambi i casi di donne che, seguendo una diversa vocazione e differenti culture, una volta poste di fronte al male comunque reagiscono stringendo nodi, distendono reti, costruiscono ponti. E al di là dei discorsi e dei ripensamenti, delle speranze e dei dubbi, le realizzazioni si vedono, esistono, rimangono. Così «Casa Tuzla», come si chiama il centro per le donne bosniache, finisce per sembrare un ideale prolungamento della «T.B. Manyatta» di Borama, do ve i nomadi del deserto vengono curati per sei mesi e guariscono da una malattia che, secondo questa insegnante divenuta medico, viene vissuta come «stigma e maledizione, un segno di castigo mandato da Dio per un peccato commesso, aperto o nascosto». E allora proprio in nome di Dio Annalena si fa in quattro. Così come, contro la pulsione distruttiva della guerra, contro la forza di Thanatos, le psicologhe bolognesi si affidano alla potenza antagonista: l'Eros, l'Amore. Sia nell'uno che nell'altro caso si tratta di donne occidentali che portano a compimento la loro vocazione di servizio al prossimo circondate da musulmani. E tuttavia, più scorre il racconto e più l'impeto della fede, ma anche l'istinto umanitario della psicoterapia trascendono qualsiasi resistenza di natura confessionale. Dopo un massacro, a Wagalla, i miliziani sorprendono Annalena che come Antigone fa quello che nessuno ha il coraggio di fare; seppellire i morti. E la picchiano. Solo allora un vecchio capo arabo le riconosce una santità universale, «perché lui non aveva fatto nulla per salvare i suoi, mentre io avevo tutto osato e rischiato per salvare la vita dei "loro" che erano diventati miei, e allora gridò per essere sentito da tutti: "Nel nome di Allah, io ti dico che, se noi seguiremo le tue orme, noi andremo in Paradiso"». E al dunque sono quasi due .llm, anche se con un'unica sceneggiatura che vive di realtà testimoniale e sacrificale. Normali, nella loro eccezionalità, le sequenze bolognesi: i primi viaggi al di là dell'Adriatico, i ritomi, le peripezie burocratiche, la raccolta di fondi in uno spettacolo con Dario Fo, la staffetta con Tuzla, i manicaretti consumati negli sgangherati vagoni del Venezia-Budapest, i giubbotti antiproiettile sùbito dimenticati in un angolo, a Tuzla, le discussioni laceranti tra interventiste e no quando partono i bombardamenti umanitari. Eccezionale invece, nella sua normalità, l'avventura somala di Annalena: arrestata, deportata, giudicata dalla corte marziale, sfuggita a due imboscate, si scopre manager della Carità, pronta a servire i poveri «sulle ginocchia», tra carneficine e carestie, ma sempre convinta che non c'è male che non venga portato alla luce, non c'è verità che non venga svelata». Assoluto, usque ad efjusionem sanguini: lo sforzo della Tonelli, complessa e paziente l'opera delle donne di Bologna. Esperienza solitaria la prima, collettiva la seconda. Ardente la fede, necessario il soccorso psicologico. Poco o nulla, in fondo, separa dal bene le persone di buona volontà. A sinistra la distruzione di Mitrovizca, durante la guerra del Kosovo. Al centro Annalena Tonelli in un ospedale somalo. A destra marcia verso la tomba dei padri nel deserto di Kalaha r Aiuti umanitari alle popolazioni serbe

Luoghi citati: Africa, Bologna, Bosnia, Budapest, Forlì, Kosovo, Somalia