Tirare giù il cielo, senza dimenticare le sbarre di Manuela Gandini
Tirare giù il cielo, senza dimenticare le sbarre IN MOSTRA A MILANO «CAPTIVI»: RASSEGNA NATA DA UN CORSO DI FOTOGRAFIA SVOLTOSI NEL CARCERE DI BOLLATE Tirare giù il cielo, senza dimenticare le sbarre Manuela Gandini MILANO IL cielo terso, che si staglia sopra la drastica geometria della casa circondariale - fotografato da Giovanni Gentile - ha un'inquadratura pulita, netta, luminosa. Mentre l'oscurità densa dell'interno - ritratta da Massimo Uliano, Emilio Franco, Francesco Cappello e Francesco Carrello - è una specie di baratro, rischiarato solo dalla luce a scacchi che filtra dalle sbarre delle finestre. In entrambi i casi la fotografia del carcere dentro e fuori - è drammatica, assoluta, vuota. E' il riflesso di un tempo immobile, senza segni di senso. Così comincia il percorso della mostra Captivi, al Centro Culturale San Fedele di Milano, curata da Andra Dall'Asta e Gigliola Foschi, frutto di un corso di fotografia svoltosi nel carcere di Bollate al quale hanno partecipato diciassette detenuti. Le immagini dei «captivi» si confondono con quelle di alcuni fotografi professionisti Paola Mattioli, Nino Romeo, Luigi Gariglio, Alessandro Mencarelli, Marco Delogu, Sergio Levati invitati a esplorare il luogo della detenzione. «Perché una fotografia è bella?». Attorno a questa domanda si è svolto il corso dei due docenti che ha suscitato negli ospiti la voglia di trasmettere al mondo, oltre le mura, la loro condizione di impossibilità. Ne è emersa una visione acuta, permeata da una particolare intensità. L'intensità dei rapporti che tutti i volontari dicono di trovare in quel luogo di rifiuto: nel cupo ritagho sociale che isola i «captivi» dagli altri. Benvenuti in carcere! Ad aprirvi virtualmente la porta di ferro massiccio con le sue mani ruvide, è Paolo Eie. Ad accompagnarvi lungo il suo percorso quotidiano per raggiungere il luogo di lavoro un lungo corridoio, le scale e l'orto - è Adel Ben Ali. Il viaggio si svolge nei frammenti delle storie di ciascuno, tra gli affetti lontani o persi e i piccoli necessari simboli di sopravvivenza. Un calendario con una donna nuda, la cartolina di Gela, la branda di Roberto Raniolo sono simboli di libertà: «Quello che vedono i miei occhi ma i miei passi non possono raggiungere». Poi ci sono gli angoli di umanizzazione ritratti da Giuseppe Vacante: il dentifricio, il permeilo da barba, una mensolina ricavata da una scatola di cartone. Anche se il cinema ha riprodotto in tutti i modi celle, bracci, linguaggi e modalità della burocrazia giudiziaria, il punto di vista dei protagonisti è autenticamente viscerale e angoscioso. Se nella sua bella installazione Mencarelli riporta la posizione dei piedi dei detenuti nel momento del colloquio, o Mattioli coglie la solitudine in un bicchierino di carta su ima struttura che a ben guardare si rivela una porta a sbarre, la sempheità e l'ingenuità visiva dei ritratti dei detenuti sono la vera novità. La creatività pura estratta dal dolore estremo. Così scorrono sotto ai nostri occhi le attività lavorative ritratte da Fabrizio Ratti e Mario Coco (spesino) o la spazialità del cortile (Luis Augusto Ferro) percepibile in rapporto a un uomo di spalle con le braccia distese come stesse per spiccare il volo. «E' stato duro - spiegano i curatori - quando i detenuti si preparavano a fotografare avevano solo due ore di tempo e ima guardia alle spalle che non li perdeva mai di vista, quindi le condizioni di libertà dei fotografi erano davvero ridotte». Il doppio sguardo, dell'autore e della guardia, rende le fotografie trattenute e costrette. Eppure brandelli di normalità, come un distributore di bibite (Ubaldo Baldini) o una partita di calcio (Ciro Bruno) o il sorriso di un bambino che va a trovare il padre (Roberto Vincenzetto), penetrano dalle serrature e dalle sbarre. La vita «normale» entra con i sogni e i desideri. Il colloquio, le sigarette, l'odore dell'aria. E' questione di tempo, di un tempo fermo.
Luoghi citati: Bollate, Gela, Milano, San Fedele
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