Politica, guerra e vita interiore: cambiare rotta

Politica, guerra e vita interiore: cambiare rotta Politica, guerra e vita interiore: cambiare rotta RIPENSARE è tornare sui propri pensieri, riattraversarli, ribadirli, cancellarli. Non è come pensare, che è spontaneo e naturale; è più difficile, qualcosa che sgorga da un impulso che spesso ci viene dall'esterno e ci costa, proprio per questo, dolore e fatica. Sono le grandi rotture della storia, ad esempio, che ci costringono a ripensare la politica. Lo ha fatto recentemente Marco Revelli, con mi libro amaro e sincero. La pohtica perduta (Einaudi, pp. 137,e 7). Le macerie del '900 hanno travolto il paradigma della modernità pohtica che per almeno quattro secoli ha plasmato la vita degli uomini e degli Stati del nostro mondo, dell'Occidente euroamericano: Hobbes, certo, e la sua appassionata perorazione perché lo Stato fondato sulla politica ponesse finalmente fine all' anarchia dello stato di natura, a una ferinità ("homo hominis lupus") che lasciava l'uomo preda del Male. La pohtica moderna nacque dalla consapevolezza del male, fu il frutto del male, ed è stata la grande scommessa che l'uomo ha fatto con se stesso per tentare di contenerlo, disciplinandolo in un ordine artificiale, da lui stesso creato in opposizione agli strumenti del diritto naturale e prescindendo totalmente dal ricorso a Dio. Per secoli, il pensiero politico classico, da Aristotele a San Tommaso, si era mosso in una direzione opposta: l'uomo era un essere "naturalmente" por¬ tato alla convivenza e all'armonia con i propri simili; all'ordine politico, per legittimarsi, era sufficiente plasmarsi sull'armonia dell'ordine naturale in cui l'umanità era totalmente inscritta. Questa araionia si è dissolta nella modernità, quando la malvagità dell'uomo è diventato il presupposto per la distruzione della sua stessa specie: il Male ha assunto le sembianze di una violenza senza pari; non la si poteva estirpare, ma almeno si poteva tentare di sottrarla all'arbitrio dei singoli: è nato così lo stato moderno, legittimandosi come unico detentore legale della Forza, il solo abihtato a usare la violenza nel nome della Giustizia e della Legge. Da allora in poi, il monopolio statuale della Violenza è stato la garanzia dell'Ordine, la Pohtica è stata la forma rituale in cui il conflitto ha smarrito le sembianze della guerra di tutti contro tutti per diventare, anzi, funzionale alla perpetuazione della pace sociale. Oggi, sostiene Revelli, non è più così: quel modello è andato in frantumi e la dimensione statuale della pohtica produce disordine e insicurezza. Dopo la rottura dell'equilibrio bipolare tra Urss e Usa, U nuovo ordine mondiale alimenta una spirale di incontrollata anarchia. In tutte le guerre postnovecentesche (Golfo Persico, Somalia, Sudan, Bosnia, Kossovo, Afghanistan, ancora Iraq), «ovunque, spenta la vampata dei massacri e dei bombardamenti, non segue la quiete dopo la tempesta ma un lungo, molecolare protrarsi della guerra di tutti contro tutti, deUa decomposizione silenziosa del tessuto civile, in un paesaggio di rovine avvelenato dalla chimica della guerra e dall' alchimia dell'odio etnico». Il crollo deU'artificialismo politico dovrebbe lasciare riaffiorare lo "stato di natura", l'armonia che vi leggevano gli antichi. Oggi, per la verità, l'unico stato di natura che mi sembra emergere dal naufragio della Pohtica è quello del Mercato, non a caso dai suoi apologeti descritto con gh stessi accenti che San Tommaso riservava all'armonia del genere umano: una condizione intrinsecamente positiva, che deve solo essere lasciata libera dagli impacci della Legge, in un mondo popolato da uomini che nella voracità dei consumi esauriscono e neutralizzano la loro naturale ferocia. Le guerre postnovecentesche hanno fatto ripensare anche la morte e le sue immagini. La macabra danza intorno ai cadaveri dei soldati spagnoli, i due figli di Saddam esposti come buoi macellati, sono tra le ultime, quelle che vengono dal "dopoguerra" iracheno. Ci hanno fatto orrore, come in altre occasioni. Lo ha scritto Susan Sontag, in un libro fondamentale. Davanti al dolore degli altri (Mondadori, pp. 112, e 13): «... quando tutti insieme guardiamo gh stessi corpi privi di vita... lo shock prodotto da tali immagùii non può non affratellare le persone di buona volontà». Ma è davvero così? Veramente le immagini di Kabul, Sarajevo, Mestar, Grozny, Manhattan, del campo profughi di Jenin, sono un potente antidoto pacifista alla guerra? Prima che il Novecento finisse lo si poteva legittimamente pensare: nel 1924, l'obiettore di coscienza tedesco Ernst Friedrich pubblicò Krieg dem Krieg! (Guerra alla guerra), un album di oltre 180 foto, molte deUe quali vietate dalla censura governativa: pagine e pagine di immagini di soldati in agonia dopo un attacco con gas tossici, bambini armeni ridotti a scheletri, cadaveri ammucchiati a putrefarsi nei campi. Per quel libro ci si scandalizzò, si lottò. Entro il 1930 Guerra alla guerra aveva esaurito dieci edizioni in Germania ed era stato tradotto in molte lingue. Transitando "oltre il Novecento" anche questo è cambiato. La Sontag lo sottolinea con triste consapevolezza: il profluvio di immagini che sgorga dai mille teatri di guerra non produce niente, solo assuefazione e rimozione. «Troppa luce abbaglia», diceva Pascal: la reiterazione ossessiva della morte prima la spettacolarizza, poi l'annulla. L'uomo dei consumi" plasmato dal mercato, divora voracemente anche la morte messa in scena; l'unica alternativa a questo pigro ottundimento sembra dischiudere orizzonti ancora più perversi: le fotografie delle atrocità belliche possono solo suscitare proclami di vendetta e odio per il nemico. Di qui la raffica di interrogativi che inquietano la Sontag: «A che serve mostrarle?.. Ci insegnano veramente qualcosa?». Forse sì. I corpi dei nemici uccisi parlano, sono documenti: non di se stessi, ma dei loro uccisori. L'essenza della guerra è uccidere e farsi uccidere. Ma non tutto finisce lì: se esponi in una piazza il corpo del nemico, se lo scaraventi in una foiba, se lo prendi a calci in una macabra pantomima, se lo metti in posa davanti alla macchina da presa, non è la stessa cosa: e le vittime ci restituiscono il profilo ideologico e la visione del mondo dei loro aguzzini. Dalla guerra e dalla pohtica, dalle grandi coordinate al cui intemo si è svolta l'esistenza collettiva novecentesca, a noi ernie individui. E' un altro scenario in cui è la vecchiaia a costringere ognuno a ripensare il proprio passato. Una Torino poco mediterranea fa da sfondo al racconto duro e scarno di John Banville, L'invenzione del passato (Guanda, pp. 258, e 15): Alex Vander, il protagonista, è un accademico vecchio, famoso e narcisista; un uomo che vede il suo corpo già offeso e sciancato diventare anche avvizzito e smunto, progressivamente svuotato di tutti i suoi umori vitali; un uomo la cui mente ancora lucida e taghente viene sollecitata bruscamente a ripensare, appunto, il proprio passato. Un passato che nasconde il segreto di un'oscura impostura. Il grande intellettuale si è appropriato dell'identità di un altro, un suo coetaneo scomparso durante l'occupazione nazista dell'Olanda. E' diventato celebre con le sue capacità, ma con il nome di un altro. Una giovane ricercatrice lo scopre, lo contatta, gh chiede di vederlo. Si incontrano a Torino. Si amano. Il vecchio offre la sua carne raggrinzita e smunta al corpo giovane e ardito della sua "nemica". Il romanzo finisce male. Ma quello che resta, il suo nocciolo nairativo, è racchiuso nella descrizione anahtica e minuziosa del modo di fare i conti con chi si è stati e con chi si sarebbe voluti essere; è il racconto di un bilancio, che allinea "i più" e "i meno" della propria vita, in due colonne implacabilmente affiancate. Ed è il momento di decidere se essere spietati o indulgenti con se stessi, di valutare come ci hanno visto gh altri e come siamo stati veramente. E infine avvicinarci a quell'inconfessabile che c'è nella vita di ognuno di noi, alla nostra personale "grande impostura". E' un brutto momento, me arriva per tutti. Giovanni De Luna Le grandi rotture della Storia ci costringono, a tornare sui nostri passi: così Marco Revelli si aggira fra le macerie del '900, per cercare quale Ordine sia ancora possibile; Susan Sontag si interroga davanti alle immagini pubbliche del dolore che noi tendiamo a rimuovere; Banville racconta le segrete imposture nascoste nel passato di ciascuno atica. Sono le grandi rotture della oria, ad esempio, che ci costrinno a ripensare la politica. Lo ha to recentemente Marco Revelcon mi libro amaro e sincero. pohtica perduta (Einaudi, . 137,e 7). Le macerie del '900 nno travolto il paradigma della odernità pohtica che per alme quattro secoli ha plasmato la a degli uomini e degli Stati del stro mondo, dell'Occidente euamericano: Hobbes, certo, e la a appassionata perorazione rché lo Stato fondato sulla polia ponesse finalmente fine all' archia dello stato di natura, a a ferinità ("homo hominis pus") che lasciava l'uomo preda l Male. La pohtica moderna cque dalla consapevolezza del ale, fu il frutto del male, ed è ata la grande scommessa che uomo ha fatto con se stesso per entare di contenerlo, disciplinanolo in un ordine artificiale, da ui stesso creato in opposizione gli strumenti del diritto natura e prescindendo totalmente dal corso a Dio. Per secoli, il pensie politico classico, da Aristotele San Tommaso, si era mosso in na direzione opposta: l'uomo a un essere "naturalmente" por¬ ziosa del tessuto civile, in un paesaggio di rovine avvelenato dalla chimica della guerra e dall' alchimia dell'odio etnico». Il crollo deU'artificialismo politico dovrebbe lasciare riaffiorare lo "stato di natura", l'armonia che vi leggevano gli antichi. Oggi, per la verità, l'unico stato di natura che mi sembra emergere dal naufragio della Pohtica è quello del Mercato, non a caso dai suoi apologeti descritto con gh stessi accenti che San Tommaso riservava all'armonia del genere umano: una condizione intrinsecamente positiva, che deve solo essere lasciata libera dagli impacci della Legge, in un mondo popolato da uomini che nella voracità dei consumi esauriscono e neutralizzano la loro naturale ferocia. Le guerre postnovecentesche hanno fatto ripensare anche la mano Madera e Luigi Vero Tarca (Bruno Mondadori, pp. 225, 6 12,50). Dalla «ricerca del senso» alla «pratica filosofica come valorizzazione e cura delle "belle persone"». Alla Filosofia è dedicato il nuovo numero di Panta (Bompiani, pp. 630, 6 20), tra parole e immagini un viaggio fra i pensatori del Novecento. che strenna fa che strenna fa ANTICHI MAESTRI Forti, sani, freschi, gioiosi: a fisarmonica dei classici