FERMI l'amorale della bomba

FERMI l'amorale della bomba UN LIBRO SUI 16 ANNI DI LAVORO NEGLI USA: DIRE CHE LE SUE SCELTE FURONO SBAGLIATE NON NE SCALFISCE LA GENIALITÀ FERMI l 'amorale della bomba Claudio Bartocci LA sera del 6 dicembre 1938 Enrico Fermi, insieme con la moglie, i due figli e la bambinaia, parte dalla stazione di Roma diretto a Stoccolma. Si reca a ritirare il premio Nobel per la fisica, di cui è stato insignito dall'Accademia svedese per le sue fondamentali ricerche sui neutroni. Alla cerimonia di conferimento del Nobel, Fermi non I indossa né l'impennacchiata uniforme di accademico d'Italia né la divisa del partito fascista, ma il frac, e invece di levare il braccio nel saluto romano stringe la mano al re Gustavo V. Dopo una breve sosta a Copenaghen, il 24 dicembre, da Southampton, si imbarca sul piroscafo Franconia per gli Stati Uniti. La decisione di emigrare non è maturata soltanto in conseguenza della promulgazione delle leggi razziali (la moglie. Laura Capon, è ebrea). Determinante è anche il fatto che in Italia, a seguito delle ristrettezze imposte dall'autarchia e dei mutati equilibri politico-accademici (nel 1937 sono morti sia Guglielmo Marconi sia Mario Orso Corbino), non sussistono più le condizioni per continuare a svolgere ricerche di fisica nucleare ai massimi livelli internazionali. Dei sedici anni trascorsi negli Stati Uniti (tornerà in Italia solo per brevi periodi dopo il 1949) offre un documentato resoconto il recente volume Enrico Fermi in America. Una biografia scientifica: 1938-1954 {Zanichelli, pp. XXVI-5I0, C 32,80) di Giulio Maltese, storico della fisica attivo presso l'Università La Sapienza di Roma. Fermi lavora inizialmente alla Columbia University di New York, per poi trasferirsi, nel 1942, all'Università di Chicago. Nell'autunno del 1938, a Berlino, Otto Hahn e Fritz Strassmann avevano osservato in laboratorio, senza averne la consapevolezza teorica, la fissione dell'uranio. Il risultato sarebbe stato correttamente interpretato poche settimane più tardi proprio mentre Fermi si trovava a bordo del Franconia - da Lise Meitner (ebrea viennese, rifugiata a Stoccolma per sfuggire alle persecuzioni razziali naziste - una grande figura, troppo spesso dimenticata, della fisica del '900) e da suo nipote Otto Frisch. La nuova scoperta è chiaro fin da subito - prospetta la possibilità di innescare reazioni a catena in grado di generare enormi quantità di energia, e questa energia, se opportunamente controllata, può essere impiegata per costruire armi atomiche. In un locale posto sotto le gradinate dello stadio della Chicago University due équipe di ricercatori coordinate da Fermi costruiscono nell' autunno del 1942 la «pila atomica», un mastodontico apparato alto circa 9 metri. Il 2 dicembre gli scienziati riescono a produrre la prima reazione a catena autosostenuta: è l'inizio dell'era atomica. Tra il 1943 e il 1945 Fermi è chiamato dal governo americano a partecipare al progetto Manhattan, diretto da Robert Oppenheimer, la cui storia è ben nota. È una colossale impresa scientifico-tecnologica, che vede coinvolti alcuni tra i più brillanti fisici (Bohr, Chadwick. Bethe, Fermi, Teller, Anderson, Wigner, Rabi, il giovanissimo Feynman, nonché i vecchi amici e collaboratori di Fermi, Emilio Segrè e Bruno Rossi), ingegneri, chimici, matematici (ad esempio von Neumann) e ha il supporto strategico di grandi companies industriali, quali Westinghouse. General Eletric, Du Pont, Eastman Kodak, Union Carbide, Monsanto. Le competenze teoriche di Fermi, unite alla sua straordinaria abilità sperimentale, si rivelano determinanti: lui, che a Roma, nel gruppo dei «ragazzi di via Panisperna», era soprannominato il «papa», a Los Alamos diventa, nelle parole di Segrè, «una specie di oracolo a cui ogni fisico con problemi difficili [può] rivol- gersi e spesso trovare aiuto». A Los Alamos vengono costruite tre bombe - la parola in codice è gadgets - realizzate secondo due progetti, diversi sia per il materiale fissile impiegato (in un caso l'uranio 235, nell'altro il plutonio 239), sia per il metodo di detonazione. La prima bomba al plutonio esplode il 16 luglio 1945 nella località Jornada del Muerto, vicino ad Alaraogordo, nel deserto del New Mexico. Cinque chili circa di plutonio producono un'esplosione equivalente a 20 mila tonnellate di tritolo: la torre cui è sospeso il gadget viene vaporizzata, la sabbia del deserto si vetrifica, si apre un cratere profondo oltre 100 metri. Appena tre settimane più tardi, il 6 agosto 1945, un bombardiere B-29 sgancia su Hiroshima la bomba all'uranio (non ancora testata): almeno 200 mila persone dovranno morire per le conseguenze dell' esplosione. Il 9 agosto la bomba al plutonio viene lanciata su Nagasaki: gli effetti dell'esplosione e della radioattività causeranno nei cinque anni successivi circa 140 mila vittime. La costruzione della bomba atomica fu l'evento che più di ogni altro dimostrò incontestabilmente l'enorme potere della scienza - e consacrò la scienza al potere. Questa realizzazione - che avvenne in tempi relativamente brevi - non fu l'esito diretto e inevitabile delle nuove conoscenze scientifiche sulla struttura del nucleo atomico: richiese gli sforzi congiunti e organizzati di una folta compagine di scienziati, che misero le proprie competenze specifiche e il proprio ingegno al servizio dei militari, ben consapevoli di lavorare alla costruzione di un ordigno di immane potenza distruttiva. Altre volte nella storia gli uomini di scienza - da Archimede a Leonardo, fino a Fritz Haber - avevano prestato il proprio sapere alla causa bellica, ma il progetto Manhattan rappresentò un sal- to di qualità: non solo per le dimensioni colossali dell'impresa (oltre 5000 persone vi presero parte), ma per il travisamento collettivo del senso etico, per l'entusiasmo irresponsabile con il quale si riempirono lavagne e lavagne di calcoli come se la progettazione di un ordigno nucleare rientrasse nella normale routine di lavoro scientifico. Le fotografie che ritraggono questi scienziati giovani e famosi - Fermi stesso, Oppenheimer, Segrè, Bethe, Weisskopf, Anderson - tranquilli e sorridenti davanti al laboratorio di Los Alamos o in gita domenicale sulle montagne del New Mexico, con gli occhiali da sole e l'aria di turisti che si godono un meritato riposo - sono la testimonianza tragica della ragione scientifica svuotata di ogni principio etico. Durante gli anni del progetto Manhattan Fermi si dimostrò sempre favorevole all'uso della bomba, al contrario di molti altri suoi colleghi che manifestarono dubbi e incertezze o, in alcuni casi, si adoperarono per cercare di modificare il corso degli eventi. Ad esempio, l'appello al presidente Truman da parte dei fisici firmatari del rapporto Franck, che nel giugno del 1945 ammonivano sulle terribili conseguenze dell'impiego bellico dell'energia atomica, trovò la netta opposizione dello «Scientific Panel of the Interim Committee on Nuclear Power», di cui Fermi faceva parte insie¬ me con Oppenheimer, Compton e Lawrence. E significative sono le parole con le quali Fermi, in una lettera ad Arnaldi del 28 agosto 1945 - poche settimane dopo gli eccidi di Hiroshima e Nagasaki - commentava con agghiacciante distacco il suo lavoro a Los Alamos: «...è stato un lavoro di notevole interesse scientifico e l'aver contribuito a troncare una guerra che minacciava di tirar avanti per mesi e per anni è stato indubbiamente motivo di una certa soddisfazione». Le scelte di Fermi furono maturate in tempi tragici, ma non furono certamente scelte obbligate. Altri, come ad esempio Franco Rasetti, forse l'unico fisico che si rifiutò di collaborare al progetto della bomba a fissione per ragioni morali, decisero di comportarsi in maniera diversa. Non deve scalfire minimamente l'indiscussa grandezza di Fermi come fisico - uno dei più geniali del '900 - dire che furono scelte sbagliate. Prima e dopo Hiroshima fu sempre favorevole all'uso dell'atomica, al contrario di molti fisici che manifestarono dubbi o anche si opposero I Un'immaginedi Hiroshima dopo 'esplosione dell'atomica, il 6 agosto 1945. Alato Enrico Fermi (1901-1954) nel suo laboratorio a Chicago